
Foto video Youtube "33"
l'album
Il bel risveglio di Ketama, ormai allergico al rap e alle sue spacconate
Il nuovo disco "33" è un lavoro inaspettato e nostalgico, che abbandona il rap puro per avvicinarsi alle sonorità popolari e alla romanità d'autore. È un album futurista e inspiegabilmente credibile in cui il monello col "pallino della musica" mette la testa a posto
Sta venendo su un’epidemia di allergia al rap. Ovvero si disegna la parabola dei migliori rapper/trapper alle prese con l’inaspettata condizione di diventare grandi, finalmente, tardivamente adulti, di sicuro fuori età per il profluvio di spacconate e i cantici del super-ego pronunciati a cuor leggero, a cui la maggioranza di loro ha affidato la rappresentazione di un improbabile possibile, momentaneo successo. Ketama, che adesso, come dice lui, ha gli anni a cui è arrivato Cristo (“33”- titolo dell’album) è sempre stato uno dei personaggi più strani e amabili della banda, con il suo essere l’epitome del loser, ben attrezzato quanto a autoironia, uno a cui manco piace nascondere i suoi vizi tossici, le debolezze, la vocazione al disastro. Eccolo riaffacciarsi con un lavoro in cui di rap ci sono giusto cenni e ricordi, amori tra le rovine, (e adesso di norma intinti in ambientazioni rigorosamente latine), mentre le correzioni digitali sono messe alla porta e, al contrario, tutto passa per il ricalco di certe tradizioni, la sua vocalità sgangherata, terribilmente passionale, la pronuncia imprecisa e dagli orgogliosi accenti di una romanità acquistata, il timbro afono, gracchiante e di gola, trascinato da uno slancio di energia che presto convince della propria sincerità. In “33” Ketama propone una sequela di ballate assassine e del rimpianto, e una serie di quasi-stornelli che periodicamente slittano verso ritmi da balera sudamericana, suonati per lo più da diligenti orchestrali.
Ci offre il ritratto di un moschettiere approssimativo e sderenato, che ha fatto un passo lungo e pure un po’ rischioso, contando sul fatto che la sua reputazione l’avrebbe comunque messo al riparo dai sospetti, dai dinieghi e dalle accuse di tradimento. E perciò via con un campionario di brani nel solco dei due sorprendenti singoli che hanno aperto la strada all’album – “La Caciara” e “33” – con una lista dichiarata di riferimenti ormai non più inattuali per un rapper della disdetta, com’è stato lui fino a ieri sera: dunque Lando Fiorini – l’ultimo di cui avremmo previsto un riaffiorare nella modernità – e Gabriella Ferri, poi una sentita riverenza a Claudio Villa e l’inchino più profondo al vate che ha ormai assunto la statura del colosso di Rodi in questa sottocultura, Franco Califano, il califfo della soffice indolenza programmatica. Perché, trascorsi gli anni selvaggi e gli esordi scatenati, uno dopo l’altro i componenti della brigata si sono radunati attorno all’effigie di colui che se ne andò promettendo di non escludere il ritorno (eccolo, il ritorno, no? Semi-eternità in vesti mitiche) e non si sono fermati nemmeno di fronte al gesto di mollare d’amblé il suono che li ha resi famosi, per abbandonarsi al riuso di una lingua e di uno stile gaggio, diversissimi e invece riaffiorati sotto forma di radici e di appartenenza. Achille Lauro, Tony Effe, Franchino e ora Ketama, il figliol prodigo pronto a sostenere che le canzoni di strada, le rime da osteria, soprattutto quell’espressione di saggezza e riconoscimento popolare contenuto in questa musica, sono la cifra nella quale si è sempre specchiato e a cui ha sempre aspirato.
Così adesso Ketama torna a essere Piero Baldini da Latina, trapiantato a Roma, un tempo pronto a disciogliere la propria gioventù nelle aggregazioni trasteverine, che erano po’ delle posse, un po’ delle comitive come quelle dei poveri ma belli, pischelli pellaria, inadatti ad assoggettarsi alle regole del lavoro e del maturare, risucchiati dal gusto di vivere come ragazzi di giornata, canterini e scherzosi, pronti a peccare con leggerezza che insegnò Ninetto. L’effetto, se vogliamo trattarlo come procedimento pop, è un disco futurista e inspiegabilmente credibile, in cui il monello col pallino della musica mette la testa a posto, e rimescola la sua galleria di esperienze d’amore e odio col repertorio allegorico ed epicureo del “fiore de pesco”, del “più pulito cià la rogna” e del “Roma bella Roma mia / te se so portata via”, poi ogni tanto scivola in un ritmo reggaeton e ci porta in una balera a bordo Tevere, di quelle con le lucette colorate. “Filosofo e cantastorie” si diceva una volta di quelli come lui, che nelle calde notti romane suonavano serenate per i più giovani e ci mettevano pure qualche consiglio per mantenersi vivi: ebbene, è un miracolo che trasmette gioia il capire che per Ketama sta finendo così, insomma bene, che la strada che ha imboccato sia questa, un cantante per tutti, che magari ce lo ritroviamo a Sanremo (del resto un paio di autori che l’hanno coadiuvato in “33” fanno già parte della schiera di hitmakers nostrani) e non in qualche lugubre trafiletto di cronaca nera. D’altronde i ragazzetti de sta Roma bella hanno sempre preservato un istinto naturale per la sopravvivenza e l’autoconservazione. Offrono performance brillanti e inattese, bei risvegli, spiando tra i cui riflessi si intravedono le tracce di un passato che sembra già una leggenda, perché, come modula Ketama in apertura, annunciando la propria resurrezione: “Er tempo se fosse denaro se potrebbe comprà / e invece no / il tempo speso male non te lo rimborsa nessuno”.