Il concerto, di Gaspare Traversi (Wikipedia)

nel centro partenopeo

Paranze di musica. A Napoli riapre il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo

Francesco Palmieri

L’istituto salva i ragazzi dalla strada, oggi come al tempo di Pergolesi: alla ripresa scolastica una cinquantina di bambini varcheranno il suo stesso portone per suonare e studiare con centinaia di strumenti. “Cosa mi aspetto? La bellezza”

Paranze dei bambini. Le chiamavano così. Ma non montavano sui motorini sparando in aria per marcare con le “stese” un territorio dal fragile equilibrio criminale, né fremevano per associarsi a qualche banda di camorristi adulti. Il portone da cui uscivano le paranze che qui andiamo a raccontare è ancora lì, a poche decine di metri da via SS. Filippo e Giacomo, dove abitava il carismatico Emanuele Sibillo ucciso diciannovenne nel 2015 da una gang rivale, mitizzato nel centro storico di Napoli con la sigla ES17 su un altarino poi smantellato dai carabinieri. S’apriva e s’apre su piazza dei Gerolomini il portone di quelle altre paranze, di fronte all’imponente chiesa attualmente recintata per restauri e alla preziosa biblioteca violata tempo addietro da un infedele direttore. Si trova sul tracciato di via Tribunali, percorso obbligato per le fiumane di turisti che in questa primavera hanno invaso la città azzurrata dalla vittoria del campionato di calcio. Se concedete qualche istante all’immaginazione, da quel portone vedrete sortire ragazzi antichi vestiti con la sottana rossa e il soprabito azzurro, dai 12 ai 20 anni, a gruppetti che si sperdono in varie direzioni. Ciascuno ha tra le mani uno strumento musicale e un’emaciata figura col violino, dall’andatura incerta e il malinconico sguardo, comanda una di queste file. I compagni lo chiamano Jesi dal luogo d’origine. Noi lo conosciamo come “l’incomparabile” Giovanni Battista Pergolesi: a vent’anni è già “mastricello” di questo Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, uno dei quattro che contava la città quando trionfava tra le capitali della musica europea. Lo Jesi, nei registri del 1729, è appuntato come uno dei cinque “Capoparanza” di suonatori di violino e la sua attività concertistica doveva essere intensa, perché il libro delle uscite attesta che dovettero comprargli le scarpe due volte in quattro mesi: il 13 settembre del ’29 e il 31 gennaio 1730.

 

Se dire che il futuro affonda le radici nel passato non è solo uno slogan, allora ha ragione la curia di Napoli, proprietaria tuttora del vetusto edificio che ospitò il soppresso Conservatorio e dell’annessa chiesetta di Santa Maria della Colonna. Ha ragione nell’averlo voluto riaprire con un’iniziativa promossa dalla Fondazione Fare Chiesa e Città, finanziata dal Rotary Club Posillipo e da privati donatori: dopo l’estate, alla ripresa scolastica, circa cinquanta bambini nati nel cuore di Napoli varcheranno lo stesso portone di Pergolesi per studiare la musica. Sono un centinaio gli strumenti disponibili e il corpo docente sarà coordinato da Agostino Noviello, che ha terminato la carriera al Conservatorio di San Pietro a Majella dopo 44 anni di insegnamento del clarinetto. A lui è assegnato il ruolo che nel ’700 si qualificava con l’appellativo di “primo maestro”.

 

Fra paranze e paranze, in questo luogo, la Storia si ripete con meno timidezza che altrove. Perciò, se qualche istante lo concedete anche all’osservazione, noterete su un muro di piazza dei Gerolomini un rinomato stencil di Banksy, l’artista britannico che non ha dato volto al proprio nome ma che qualcuno dice sia di origini napoletane, come Elena Ferrante la scrittrice e Liberato il cantante, altri due acclamati “senza volto” della città. Il murale rappresenta una Madonna con la pistola sull’aureola che i turisti non tralasciano di fotografare. Proteggono l’opera una teca di plexiglass e due custodi designati su una targa: un vicino ristoratore e il rigattiere Antonio Mellino, che è un altro irregolare dell’onomastica. Se difatti lo chiamate col suo nome nessuno lo conosce, mentre se lo cercate come Agostino ’o pazzo tutti sanno chi è: il titolare dell’affastellata bottega di rigattiere attigua al risorto Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo. Conquistò il soprannome in un turbolento agosto giovanile del 1970, quando non volendo né sapendo suonare o sparare, anziché capeggiare una paranza s’espresse nel suo unico ma formidabile talento. Il motociclismo. Fece impazzire per quattro notti la polizia, che inseguiva l’ignoto scalmanato su una Gilera 125 nelle indiavolate gimcane fra Toledo e i Quartieri Spagnoli e ne veniva puntualmente beffata, sicché al mattino i napoletani si procuravano il giornale per leggere come prima cosa dell’ultimo duello tra gli agenti e il centauro, che suscitò persino una sommossa di piazza guadagnando il soprannome da un campione della moto, Giacomo Agostini, storpiato in Agostino (e perché ’o pazzo è superfluo spiegarlo). Soprannome e fama, in virtù dell’effimera epopea che proseguì anche con un’effimera parentesi cinematografica, hanno resistito per cinquantatré anni prevalendo sull’anagrafico Antonio Mellino.

 

Nessuno può predire con certezza l’aureola o una pistola per chi nasce tra la chiesetta di Santa Maria della Colonna (traslazione partenopea della Virgen del Pilar) e la Madonna di Banksy, dove i destini tracciati nelle statistiche minorili si manifestano più labili. Però la Storia davvero si ripete: anche nel ben più fosco 1589 fu simile l’intento. Togliere i bambini dalla strada. Oggi la curia, allora un frate francescano, Marcello Fossataro. Alla fine di una grande carestia, andò raccogliendo i minori abbandonati che “morivano per la fame e per lo freddo” e li radunò “in una casa appigionata” nello stesso luogo di adesso. Se conosciamo le vicende di quel Conservatorio, e degli altri istituiti in città, è grazie alle ricerche certosine dell’agguerrito bibliotecario Salvatore Di Giacomo, più noto ai posteri quale maggior poeta dialettale napoletano (una meritoria riedizione del suo studio fu curata dalla Stamperia del Valentino nel 2017).

 

Al principio, per sostentare gli orfanelli, il frate girava di notte chiedendo la carità per “i poveri di Gesù Cristo”, implorazione che diede il nome al Conservatorio. I privati aprivano le tasche in misura “pronta, continua, generosa”, sicché ai ragazzi furono garantiti vitto, alloggio, l’apprendimento della grammatica, dell’abbaco e di un mestiere, principalmente di sarto o ciabattino. Dal 1634 il programma didattico incluse la musica, che in breve occupò con la grammatica l’intera formazione. Crebbe il numero degli allievi e agli orfani si aggiunsero i convittori paganti, che poi sarebbero arrivati, come Pergolesi, da tutta Italia attratti dalla fama della scuola. Il Di Giacomo bibliotecario cede al poeta quando immagina i passanti per piazza dei Gerolomini fermarsi davanti al Conservatorio catturati da “voci di canori giovanetti e voci e sospiri di arciliuti e di violini”. “Il popolo s’arrestava là sotto, intenerito e silenzioso: e pareva che se ne stesse a udire, incantato, i suoi figli”. Ma la realtà non era sempre così idilliaca: disciplinare un collegio di scugnizzi, ancorché violinisti, dovette richiedere la mano pesante. In un inventario presentato all’arcivescovo risultano nel guardaroba “tre verghe di ferro, due para de ferri e un paro de manette de ferro”. Piccoli demoni che però, crescendo la domanda musicale, venivano inviati quasi ogni giorno a suonare o cantare per chiese, processioni, funerali e ricorrenze sacre dietro congrua remunerazione. Si esibivano talvolta, a richiesta dei clienti, in una “paranza con gl’angioli” con le bionde parrucche boccolute e le alucce di stoffa.

 

Ci fu tra gli insegnanti il fior fiore dei compositori: Gaetano Greco, Nicola Ceva, Francesco Durante, Francesco Feo, il maltese Girolamo Abos. E parecchi furono gli illustri allievi. Prima di Pergolesi i registri annoverano Nicola Porpora (convittore a 18 ducati l’anno nel 1696), che sarebbe diventato uno dei più importanti musicisti europei e l’ambitissimo maestro delle future star dell’Opera di allora. Ossia i castrati. Studiarono con lui Farinelli e Caffarelli, che ha lasciato a Napoli il sontuoso Palazzo Majorana costruito coi proventi della fortunatissima carriera. Al pari o forse più degli altri allievi, gli eunuchi furono soggetti turbolenti. Di Giacomo cita il soprano Nicola Reginella, convittore pagante nel 1742, emulo e nemico di Caffarelli, “col quale parecchie volte venne alle prese e si pigliò a bastonate perfino”. Qualche testa calda si annoverava anche tra i ranghi dei maestri: sono sopravvissuti al suo carattere e giunti fino a noi, almeno presso un pubblico ristretto, i concerti e le sonate di Nicola Fiorenza, lunatico docente di strumenti ad arco nel Conservatorio S. Maria di Loreto. Dal 1743 al 1762 costituì l’incubo degli allievi, finché dopo ripetute e vane ammonizioni del rettorato non venne licenziato sulla base di un esposto firmato da trenta disperati ragazzi: “Invece di dar lezione, e far concerto, perde gran tempo in mille ciarle, dalle quali i supplicanti non apprendono cosa alcuna di bene, bensì di male”. Se ne denunciava soprattutto la violenza: “Col mazzarello con cui porta la battuta continuamente batte indiscretamente nella testa, nelle braccia, ed altre parti delicate”, fino a sguainare la spada, tenuta sempre al fianco, per infilzare un alunno che si salvò scappando.

 

E la violenza forse, con l’esplosione vesuviana di caratterini ribollenti, segnò anche la fine del Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo. Una sommossa studentesca, e non la prima, scoppiò a dicembre 1730 e si concluse nel sangue. I “figliuoli” si ribellarono alle angherie del rettore, soprattutto per il vitto, e lo scacciarono “con molte villanie” quando s’accorsero che invece di distribuirle tra loro aveva venduto “a bottegari” le arance maturate sugli alberi del chiostro. Oggi diremmo che occuparono la scuola, e dismesse le parrucche d’angelo esibirono lo spirito di Masaniello. Governato dalla curia, cui ne era delegata anche la giurisdizione, il Conservatorio fu assediato dai serventi arcivescovili “con quattro guardie di sbirri”, i quali non riuscendo a farsi aprire con le buone irruppero di forza nell’edificio. Una cronaca manoscritta riferisce il tragico epilogo, quando “un bizzarro giovane con uno spadino nudo” si parò dinanzi agli invasori per sbarrarne il passo. Si chiamava, lo sfortunato, Domenico Lanotte ed era uno studente originario di Bisceglie. Il caposquadra dei curiali, “per farsi vedere guappo ed essere il primo ad entrare”, mise mano alla pistola e gli sparò al petto uccidendolo sul colpo. Ne sortì scandalo in tutta la città, ma il colpevole la fece franca e nel Conservatorio scattò una epurazione: chi se n’era scappato e chi fu espulso, come Pergolesi, chi rimase e si sottopose ai castighi. Fatto sta, riferisce il cronista, che l’istituto perse “li più grandi e le meglio voci e meglio istrumenti”. Fu inarrestabile il declino che portò alla chiusura dei Poveri di Gesù Cristo nel 1743. Da allora il complesso di piazza dei Gerolomini fu adibito a seminario diocesano fino al 1865, quando il Governo lo soppresse e fu riconvertito prima in una caserma, poi in collegio municipale. La curia ne rientrò in possesso nel 1887 dopo un’aspra vertenza giudiziaria e lo destinò nuovamente a “Piccolo seminario” finché in questo 2023 – e sì, la Storia si ripete – non lo ha nuovamente destinato allo studio della musica, intrecciato da sempre alle dolci e violente sorti della città.

 

“Non sappiamo se dai ‘Poveri di Gesù Cristo’ possa uscire qualche nuovo Pergolesi”, dice Elio De Rosa, presidente del Rotary Posillipo, “però sappiamo che è utile ogni tentativo per strappare questi bambini alle zone degradate offrendo con la musica l’opportunità di un futuro lavoro. Sarebbe bello che al vocabolo ‘paranza’ si tornasse ad associare quel più antico significato”. Ci crede il professor Noviello, alias “primo maestro” di questa settecentesca reincarnazione: “Cosa mi aspetto? La bellezza. Vedendo tutti questi strumenti nuovi pronti per gli studenti voglio che innanzitutto li conoscano e se ne innamorino. Se tra cinquanta allievi ne usciranno cinque che avranno voglia di continuare sarà una vittoria, non per me ma per la musica, per Napoli e per quest’antica istituzione. Come docenti ho scelto alcuni allievi avanzati del Conservatorio di San Pietro a Majella, perché servono i giovani per insegnare ai bambini. E già non vedono l’ora di iniziare”. Sono i nuovi “mastricelli”. Sentiremo che musica uscirà, dopo duecentottant’anni di silenzio, da quelle stesse finestre.

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