Francesco De Gregori in concerto nel 2015 (Lapresse)

Buon compleanno

Tra Atlantide e il palco, il disincanto di Francesco De Gregori

Malcom Pagani

Il cantautore compie oggi 73 anni. Senza bussole, ha vissuto all’incrocio dei venti, ma non si è bruciato. Canta ancora, più di mezzo secolo dopo gli esordi. E i fiori della sua storia continuano ad accompagnare i nostri sogni

“E se provi a voltarti indietro non c’è molto da raccontare / ma forse siamo solo noi che non sappiamo guardare” (Francesco De Gregori)


Agli amici di un tempo manderà certamente una cartolina perché con le parole ci si può salvare. Francesco De Gregori le ha lette, scritte e cantate fin dall’epoca in cui incollava fotografie sopra a pezzi di cartone. Per imparare a camminare su quelli di vetro con l’illusione di non ferirsi c’è voluto tempo. Senza bussole, con il rischio di perdersi e senza filo sotto i piedi ha scelto di vivere tra Atlantide e il palco. Con il telefono staccato e l’anima in libertà, tra profondità e riemersioni, è stato sempre se stesso. Ha dovuto spiegarsi, sottrarsi, deludere a volte: “Non voglio essere dove gli altri vorrebbero che fossi”. Ha dovuto difendersi. Non è vero che il cuore fosse di ramo duro, ma Francesco sapeva su quali alberi salire per nasconderlo alla vista degli altri e vedere a sua volta anche più in là del cielo. Con la sua luce strana dentro agli occhi, De Gregori ha intuito in fretta che nessuno ti vuole e nessuno ti vede per quello che sei, ma se la gente impegnata a contare il tempo con gli aperitivi non riesce a leggerti l’anima, forse, hai fatto un buon lavoro. “Per me l’artista è uno che non dice mai ciò che la gente si aspetta che dica”.

 

Per contratto e brevità fin dagli esordi chiamano artista anche lui, ma il suo mestiere, un mestiere fisico, da mani sporche e calli tra le dita, non ha mai preteso altra patente che un passaporto per andare lontano. De Gregori lo ha riempito di timbri, viaggi e miraggi dopo un’infanzia piena di traslochi e treni. C’erano bacchettate sulle mani e maestri felliniani, inverni nevosi, stufe di ghisa e broncopolmoniti, libri di Salgari, finestre e cortili come giungle, banchi di formica con colori  da ospedale e ricoveri più lieti, nei passi di montagna a intonare i cori degli alpini con il padre Giorgio. L’uomo che vive tra rocce e libri e la mattina si veste, stringe la cravatta, si guarda allo specchio e non esce prima di sentirsi in ordine perché di ordine, la mansione di “soprintendente bibliografico per l’Abruzzo e il Molise” ha bisogno. In mezzo ai volumi, in una biblioteca di Firenze, conosce Rita nel 1937. Lavorerà tra le pagine chiare per l’intera esistenza fino a che, chiosa ironico, “di mettermi in pensione si occupa il computer”. Il tempo è volato, ma a guardare nei ricordi sembra ancora ieri.

 

De Gregori si affaccia al mondo nel mese che mescola memoria e desiderio, in aprile, il giorno 4. L’anno, lo stesso del primo Festival di Sanremo – nella città dei fiori lo vedranno passare, raramente, al solo Premio Tenco – e del Giovane Holden – al quale il nostro preferisce di gran lunga America di Kafka – è il 1951. “Certe cose dovrebbero restare come sono” scrive Salinger. E invece cambiano. Si passa da Roma a Pescara qualche mese più tardi, nel ’52: “Le fotografie di quel periodo mi espongono al mondo tranquillo, sorridente e grasso” e poi di nuovo a Roma, nel 1960, senza mitografie: “Un bambino che vive in acqua, pesca telline con le mani, si scotta sulla spiaggia e ha un padre bibliotecario non evoca il mito della frontiera”. Vanno ad abitare in una strada che collega via dei Colli Portuensi a via del Casaletto: “C’erano ancora le baracche e i grandi prati tra una casa e l’altra”. Sua madre, con vezzo da concittadina collodiana, smette di chiamarlo fiammiferino e le notti postadolescenziali di De Gregori incendiano una cantina a due passi dal Gianicolo. Ci era passato Dylan per esibirsi di fronte “a non più di 15  persone” e ci passerà Francesco portando chitarra, armonica a bocca e paura. Le ginocchia colorate di rosso figlie di una passione per il ruolo di portiere varcano la soglia del locale inventato da Giancarlo Cesaroni quando Francesco ha 17 anni, nel 1968. Luigi, suo fratello, ascolta un’incisione a casa: pensa che sia una buona imitazione di De André e quando scopre che l’ha scritta “Checco” e non ci pensa su: “Si va al Folkstudio”. Mentre il filobus scende da via Jenner e la domenica stende un velo d’attesa sui tinelli, “Gigi” lo allena al rendez-vous: “Se sbagli un accordo fai finta di niente: non se ne accorge nessuno. E non demoralizzarti se qualcuno si alza e svicola, succede spesso”. Poi si sistema ai piedi del palco. La catechesi laica non rende santo il giovane apostolo e a passo d’uomo, infatti, Francesco De Gregori sbaglia: “Avevo le dita congelate e non presi un accordo, a metà del pezzo mi dovetti fermare e iniziare da zero. Qualcuno tossì, io diventai rosso e scesi dal palco sicuro che non avrei mai più accettato di salirci”. Andò diversamente. Più di mezzo secolo dopo De Gregori canta ancora. Ha vissuto all’incrocio dei venti, ma non si è bruciato. La recente tournée con Venditti, trionfale, autorizzerebbe compiaciute autopromozioni, ma i pavoni che vedeva da ragazzo a Villa Sciarra, divorati dalla vanità, hanno preso sembianze umane, i nani non sono più scesi dai trampoli e di fare la ruota o improvvisarsi mangiatore di fuoco FDG non aveva voglia neanche da ragazzo. Dici ritrosia e nel cappello trovi molti possibili sinonimi. Uno, poco esplorato, magnificamente anacronistico, è pudore.

 

Esattamente otto mesi dopo l’aggressione subita in aprile da De Gregori al Palalido di Milano – con tanto di processo pubblico, lacrimogeni, fuggi fuggi e in cui per dirla con Arbasino, “i trucidi volti degli sloganatori del ’68 italiano” sembrano dar ragione allo scambio di visioni sul “movimento” tra Adorno e Marcuse: “Caro Herbert, sarò l’ultimo a sottovalutarne i meriti, ma in esso agisce una piccola dose di follia che è teologicamente affine al totalitarismo” – va in onda su Rai Due una monografia per la regia di Ruggero Miti intitolata Passo 16. Un frammento di discorso registrato, anarchico e modernissimo, datato giovedì 2 dicembre 1976. Sembra girato in estate perché tra vasi usati come posacenere, fotografi, pianoforti, microfoni, chitarre, improvvisazioni, espadrillas ai piedi, scale, bottiglie di vino, letti, fogli di giornale, operai in canottiera e angoli di Trastevere c’è adrenalina nell’aria e ogni cosa è calda, scura, definitiva. Prima che la pellicola si spezzi riconosci Ivan Graziani e Lucio Dalla. Dividono lo spazio con De Gregori che tra un brano e un ritaglio in presa diretta risponde soffrendo alle domande di Miti. In poche battute fotografa chi è e chi vorrebbe essere. “Il tuo lavoro con la gente finisce quando tu hai terminato la canzone?”, “Vorrei che fosse così”. Seguono scambi serrati, aspri: “Quando ti metti al pianoforte il tuo lavoro si limita all’idea di procurarti un divertimento?”, “Ma tu cosa pensi che sia?”, “Io non faccio il cantante”, “A cos’altro potrei mirare? A cambiare il mondo?”. Poi sorride con un principio di tristezza in fondo all’anima: “Aspetta che mi metto gli occhiali”, “Per mascherarti? Per quale motivo senti il bisogno di metterti gli occhiali?”. “Perché faccio una recita”. Pausa. “Allora, qual è la domanda?”.

 

Enrico Deregibus, che su De Gregori ha scritto tomi enciclopedici in cui amore, psiche e ricerca maniacale governano insieme, sostiene che Francesco, qui anche coproduttore, deluso dal risultato, abbia personalmente rimontato lo speciale in una sola notte. Di sicuro il dialogo somiglia a un manifesto esistenziale e si sente l’eco dell’amato Lévi-Strauss (“un autore fondamentale per me” dirà De Gregori) che si schermisce e procrastina la scrittura di Tristi Tropici per più di un decennio: “Occorre proprio narrare per disteso tanti particolari insipidi e avvenimenti insignificanti?”. Forse l’uomo voleva parlare, ma non del destino di Cesare perduto nella pioggia, di chi fosse Pablo o di che finale scelga Irene mentre guarda giù dalla finestra e sogna cose che non sa. “Non ho mai scritto pensando al pubblico, pur avendone profondo rispetto. C’è chi ha creduto di sapere sempre per chi cantava: io no. Io non l’ho mai saputo”. De Gregori non si è mai preoccupato di costruire un podio, di spolverare il proprio monumento, di mettere in fila il valore assoluto o relativo di una canzone. Da uno che è sempre stato dalla parte di chi ruba nei supermercati non puoi pretendere un codice a barre. Quindi Alice, Rimmel, Generale, La storia, Titanic, Bufalo Bill, Il signor Hood sono lì, senza etichetta e lì resteranno: “La parola capolavoro la trovo imbarazzante, anche in altri campi artistici. Non mi interessa. E non mi interessa perché mi piace la parola lavoro. Non amo l’idea che qualcuno pensi a una sua canzone, un suo libro, un suo quadro teorizzando che rimarrà. Io credo nel lavoro complessivo di un artista. E’ il pubblico che decide, ma ‘capolavoro’ è una schematizzazione”.

 

In mezzo a un rumore di niente c’era da capire soltanto che De Gregori cercava la sua strada e la sua voce, anche in silenzio. Autonomo davvero, senza sigle o proclami perché il rischio di urlare al regime è che si finisca irregimentati e allora: repulsione e fuga, come in una delle sue canzoni meno conosciute e più belle, Celebrazione: “Ci sono posti dove sono stato / mi ci volevano inchiodare / ai loro anni ciechi e sordi / ai loro amori raccontati male”. Così capita che il riserbo confini con la rimozione e che certe cose, magari straordinarie, come Bene, composta a Ponza, sotto un pergolato in un paio d’ore nei primi anni 70 non si siano mai potute ascoltare dal vivo. “È una canzone privata” dice lui in 18 lettere. I fiori della sua storia – li abbiamo trovati e coltivati – sono diventati nostri, ma non avendo fatto niente per convincerci che profumassero, De Gregori non porta alcuna responsabilità. Per accompagnare i nostri sogni ci voleva un uomo con le spalle larghe. Spalle su cui farsi scivolare le accuse di ermetismo o di intimismo (il turpiloquio demenziale di chi era chiamato a incasellare con la penna d’oro: “I critici” sosteneva Carmelo Bene “sono alpini di pianura”) e cercare un modo elegante per andarsene via dal passato, dal cenacolo della Rca, dall’equivoco del successo, da tutti i volti incontrati e perduti nel percorso. Sarà che tutta la vita è una strada e la vedi tornare, che un anno cambia, vola e cambia faccia e che a volte ci si perde di vista, ma le nostre ore con De Gregori, ce lo ha suggerito proprio lui: “E non fu mai passato il tempo che passò” non sono trascorse invano. Ci hanno lasciato ombre due volte più grandi delle nostre. Ci hanno portato indietro, ci hanno precipitato in avanti. Ci hanno costretto a pensare. Hanno depositato il lusso del dubbio. Qualche capello è rimasto per terra, ma continuiamo ad ascoltarlo senza necessariamente dar retta alla sua lezione. “Il professore, il preside: è una parte che mi riesce sempre bene”. Giuriamo di amarlo, ma da convinti egoisti in cuor nostro, senza avere il coraggio di confessarcelo, vorremmo fosse come il cantante immaginato da Edoardo Bennato in “Sei come un juke-box”. Un travet. Un pianista di piano bar a cui suggerire di recuperare perle sepolte sotto sabbia e cemento, sparite progressivamente da scalette che potremmo riformare declinando capricci e desideri con la stessa enfasi della formazione della Grande Inter. Citando anche noi: “Sarti, Burgnich, Facchetti” un undici ideale.  Canta canta, Dolce Amore del Bahia, La campana, L’aggettivo mitico, Capo D’Africa, Belli Capelli, Vecchia Valigia, San Lorenzo, Deriva, L’amore comunque, Parole a memoria, eccetera, eccetera, eccetera.

 

Il suo nome ha scintillato in faccia ai maligni e ai superbi perché come sostiene Saverio Costanzo, regista: “Puoi ascoltare le sue canzoni vecchie e nuove senza mai correre il rischio della noia”. Le storie di ieri e quelle di oggi sono arrivate nel mare color del vino e sulla nave ha trovato posto chi fuma, chi è curioso, chi ha saputo capirlo e, persino, sopportarlo. Gli amici che suonano la chitarra meglio di Caterina, ma sanno fare comunque carnevale: Paolo Giovenchi, gli eterni capobanda come Guido Guglielminetti, i fratelli acquisiti come Vincenzo Lombi che lo segue dal ’94, i suoi figli gemelli appassionati di vinili e Chicca, Alessandra, così ancorata al soprannome che negli alberghi non le chiedono più il documento di identità anche se per certi articoli in cui viene chiamata Antonietta o Francesca servirebbe. De Gregori la chiamava la pellerossa ai tempi in cui in via del Mattonato, in un appartamento senza termosifoni, i giorni di sole e quelli di pioggia si alternavano trovandolo sempre dalla stessa parte. Fa freddo in quella casa nell’estate del ’77, quando lei parte per la montagna e De Gregori le scrive una sorta di lettera pubblica tanto sfacciata che si fatica a credere porti davvero la sua firma: “Ah amore, ti amo, ovunque tu sia e con chiunque tu stia, qualsiasi cosa tu stia facendo. Ci sono tre angeli custodi appollaiati sulla tua spalla e nessuno ti custodisce. Ah amore torna più presto che puoi dentro questa nottataccia che sto vivendo. Vendimi delle rose bianche e delle canzoni da circo con dentro delle facce spiritose e gentili che sappiano ben suonare i loro strumentini di legno…”.

 

Chicca è tornata e non se ne è più andata. Francesco ha cambiato idea su quasi tutto, ma non su di lei. Sono ancora lì, a guardare “queste cose passare” e a cantare insieme, come 35 anni fa in un concerto romano per L’abbigliamento di un fuochista: attraversando il mondo, con la geografia e le rotte strette tra un caravan e un camerino. Nei cassetti da “dilettante di talento” De Gregori ha conservato quel che serviva a iniziare dal futuro invadente. Non ci sono più il maggiolone nero di Venditti, le trattorie dei camionisti sulla Tiburtina, il palco rosso del Folkstudio, i sacchi di juta alla pareti, le peregrinazioni in Ungheria, i vasetti di miele per Giorgio Lo Cascio, le pecore di Gordon Faggetter e dal suo primo disco, rifletterci dà le vertigini, sono passati 51 anni. Se abbiamo imparato le sue strofe parola per parola, peggio per noi: “Ho da sempre pochissima memoria. Dimentico le cose importanti, ma dimenticarle mi aiuta a essere disincantato. È come se accettassi che tutto può essere dimenticato e che niente è stato così importante da essere scolpito o messo dentro un album”. Per un ragazzo del ’51, scaricare i numeri o concentrarsi sull’inizio dell’alfabeto è un esercizio inutile. Non è ancora già domani, ma non è nemmeno ieri.

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