Liberamente De Gregori

Malcom Pagani

Ha festeggiato settant’anni, molti passati a schermirsi, restando però fedele a se stesso. Antipatico prima, simpatico ora? Chissà. Ma ci ha insegnato a non avere paura della notte e noi ci siamo sempre fidati di lui

Sarà che tutta la vita è una strada con molti tornanti.
Francesco De Gregori


Da qualche parte nel cuore c’è la terra di Francesco De Gregori. Non è di nessuno e appartiene solo a lui, ma ci si può arrivare. La regole sono le stesse delle storie di ieri: riempire il cappello di ricordi, fidarsi dei miraggi perché partire è già viaggiare e sopratutto non illudersi. Credevamo di essere come lui e di sentire le stesse cose: era un tentativo di semplificare l’incanto fissando al muro una foto, la nostra, che moriva lentamente. Eravamo ospiti del suo mondo, destinati alla provvisorietà, a scartare di lato e poi a cadere. A Battere e levare per poi tornare al punto di partenza: ancora quella canzone, maestro, una volta soltanto, per essere felici in quei tre minuti. Con De Gregori il tempo è relativo. Lo ascoltavano i nostri genitori facendo stingere al sole il rosso vivo di certe musicassette in cui le parole si confondevano con il vento che entrava dal finestrino e lo ascoltiamo noi, che un sacchetto di gettoni nelle tasche per cercare un amore non lo abbiamo più, ma sappiamo volare e connetterci anche senza rete tendendo un filo tra le stagioni. Un paio di giorni fa De Gregori ha compiuto settant’anni. Non si è messo in posa e ha lasciato che parlassero gli altri. Tra il telefono e il cielo ha scelto il secondo nonostante lo smartphone, dopo un eroico decennio diviso con un apparecchio privo di immagini, si sia affacciato nella sua vita a passo d’uomo con la stessa immanenza di certe automobili cantate all’inizio del percorso: “Santa Seicento vestita di latta e di argento/ miracolo indicibile di scocca e parabrezza/ segno inconfondibile di social ricchezza”. A Pescara dove suo padre, il “magrissimo” Giorgio, bibliotecario, si era trasferito nel 1952 con la moglie Rita e il fratello maggiore di Francesco, Gigi, di ricchezza ce n’era poca. Soldatini incollati “sopra pezzi di cartone”, lunghi inverni innevati, maestri sadici con il vizio della bacchetta come in “Amarcord”, crateri nel terreno eredità di qualche “fabbrica di vedove” volante e all’orizzonte, la ferrovia. De Gregori prese il treno e fece bene. Si ritrovò di nuovo alla stazione di partenza, Roma, nel 1959 e abitando in una casa austera “in cui non si discuteva mai del nuovo televisore da acquistare” vide prima Abebe Bikila trionfare a piedi scalzi alle Olimpiadi dallo schermo di un bar e poi, in qualche cinema, i film con Gianni Morandi e Laura Efrikian. Sul palco rosso del Folkstudio in Via Garibaldi, tra i pezzi di vetro e i sacchi di Juta alle pareti, avrebbe presto imparato a camminare anche De Gregori scoprendo dopo i dubbi iniziali di esserne degno e di poterci stare. La prima volta, con una triade di consigli “universali” al tramonto degli anni 60 ce lo trascinò Gigi che all’epoca si faceva chiamare Ludwig. “Se sbagli un accordo fai finta di niente tanto non se ne accorge nessuno, cerca di imparare le parole a memoria e non ti abbattere se qualcuno dovesse uscire mentre canti perché succede sempre”. De Gregori registrò le parole alla stregua di un ultimo discorso e si fece coraggio.


Aveva le estremità delle dita fredde, il bavero alzato del cappotto e una pipa spenta nella destra. La canzone si intitolava “Buonanotte Nina”, descriveva un amore reso ispido dalle distanze sociali e per ironia e accordi doveva qualcosa a De Andrè: “Parlavo con tuo padre/ giocavo coi bottoni/ rinnegavo in un momento la mia stirpe di cafoni”. Dopo circa duecentoventi secondi, tra i colpi di tosse del pubblico e l’emozione che lo aveva fatto avvampare, De Gregori si avviò verso l’uscita persuaso dall’idea di un fallimento senza appello. Incontrò il deus ex machina del luogo, Giancarlo Cesaroni e gli chiese una recensione: “Se sul giornale di mercoledì prossimo leggi il tuo nome nella programmazione puoi tornare”. Accadde e il ragazzo che era cresciuto solo sentendosi sempre in compagnia una compagnia la trovò davvero. Una casa discografica, un gruppo di ragazzi con la chitarra, l’ispirazione per scrivere, già nel 1971, “Alice” e un esordio vero, “Theorius Campus” in coppia con Venditti con il quale, se dio vorrà, non più a bordo del maggiolino nero guidato dall’Antonello di allora, tornerà presto sul palco a mezzo secolo di distanza da allora. 


E’ strano? E’ logico? Diremmo – se non avessimo timore dei fulmini di De Gregori – consequenziale. La sua “luce strana dentro agli occhi” prima ancora dei decenni a venire ha illuminato De Gregori stesso. Gli ha permesso di “guardare la Luna inseguendo altre persone che sanno guardarla e commuoversi”. Di dimenticare, cercando ancora un altro Egitto, i ceffi che negli anni ciechi e sordi degli slogan e dei processi in piazza che in un’involontaria parodia guardavano a oriente, colpivano nel mucchio, non educavano nessuno e pretendevano di indirizzare il gusto, lo accusavano di “guadagnare (sic) e quindi di scostarsi colpevolmente dalla rivoluzione popolare. De Gregori provvedeva a quella interiore. Alla sua e alla nostra. Tanto ci bastava e ancora ci basta e ci consola. Cosa importa se sono lontani i tempi della Rca, se certi sogni erano raccontati solo per scandalizzare o se non era proprio vero che i musicanti non piangessero mai? La musica, scriveva nel 1974, rappresentava un alibi “per diffondere quello che scrivo”. Ma del libro di De Gregori iniziato verso sera contava che al mattino dopo ricordassimo ogni frase. 


Francesco giurava che di aver paura non ci fosse ragione e noi ci facevamo coraggio. Francesco sosteneva che in qualche modo saremmo comunque cresciuti e noi ci fidavamo. Anche quando non c’era niente da capire o al contrario, da capire c’era persino troppo. Anche se intorno c’era rumore di niente o gli elementi a disposizione non consentivano analisi. Anche se andare avanti tranquillamente ci esponeva al disastro. “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è. Nessuno me lo dice”, rifletteva Monica Vitti nello straniamento senza redenzione di “Deserto Rosso”. De Gregori sapeva che non c’erano risposte possibili e che la realtà, proprio come sospettava Antonioni, non fosse fotografabile. 


De Gregori ha scattato delle istantanee in movimento, ci ha spiegato che la vita abbaia e morde, ma non si è mai messo in cattedra. “Maestro, professore, è un ruolo che mi riesce sempre bene”, ironizzava in un vecchio disco dal vivo. Ma anche quando l’hanno raccontato male, non sono mai riusciti a incasellarlo. Che avesse un cappello da baseball o un copricapo a larghe falde, Francesco si è messo all’ombra. Al riparo dalle definizioni. Schermirsi era una necessità. Nascondersi un dovere. Ai tempi di “Banana Republic”, di fronte ai dubbi di Lucio Dalla: “Non sono sicuro che intraprendere una tournée con lui sia una buona idea. Ma lo sai quanto è bravo Francesco sul palco? Lui è un principe”, Gianfranco Baldazzi aveva detto la sua: “Sì ma tu sei un mago e sei anche più puttana”. Uno stava sempre addosso ai muri, l’altro si dava volentieri. Si misero in marcia. Riempirono gli stadi dopo il fosco biennio delle autoriduzioni e di quella che Tatti Sanguineti, a Claudio Caligari, aveva esemplificato con un termine “canea”, capace di restituire l’idea. Di canea, una canea collettiva, ce ne fu molta e quando a Cagliari, al limitare di agosto, i due si separarono avvenne perché immaginavano che trent’anni dopo si sarebbero incontrati ancora. 


A Dalla, conosciuto nel 1973, e poi amico per la vita, alla fine dell’avventura De Gregori aveva scritto una lettera in cui l’autoscatto pagava un prezzo alla sottoesposizione: “E’ vero, siamo molto simili, io forse sono più razionale di te, meno disponibile, meno gentile, meno affettuoso. Ma dipende, oltre che dal mio carattere, anche da una scelta ben precisa: mi difendo a priori, ho eretto una invisibile muraglia di protezione alla mia intimità”. La muraglia è rimasta e non c’è modo di convincere De Gregori a discutere del nulla, a essere usato, a sventolare una bandiera, a fare ciò che non ha voglia di fare, ma al di là del muro, quando qualcuno ha bussato, recentemente la porta è stata aperta. De Gregori, vox populi, “è diventato simpatico”. Forse lo è sempre stato o forse no, ma a levigarsi sopra ogni altra cosa è stata la timidezza. Non deve dimostrare più niente a nessuno né chiedere scusa per aver venduto mezzo milione di copie con un disco. Il sarcasmo, fin da tempi di Richard Nixon, è rimasto quasi identico: “Finora coi ragazzi sono stato troppo energico/ con chi prendeva l’hashish o l’acido lisergico/ l’America è malata, i rimedi siano estremi/ o ci droghiamo tutti o diventiamo scemi”, ma alla diffidenza hanno fatto posto dolcezza e autoironia. A volte si incazza ancora perché sa indignarsi, ma è meno apodittico di un tempo. Ha dato peso alle sfumature. Ha imparato a perdonare i giornalisti che si inventavano esibizioni mai tenute e gli impresari che nel microcosmo western degli esordi lo facevano viaggiare per concerti che non avrebbero visto vibrare una sola nota. “A Sezze avevi detto? Ma sei sicuro? Al posto del palco c’è un campo incolto!”. Forse ne ha nostalgia, più probabilmente il tempo che passa è simile a un amore a cui capita di ritornare: “Quel pomeriggio che ti ho detto scusami, ma qualche volta chiamami anche tu/ e ancora adesso non riesco a credere che non ti avrei rivista più”. 


Capita di perdersi e di cambiare idea (a De Gregori grazie a dio è successo spesso), ma è basilare ritrovarsi sempre “dalla stessa parte”. All’identità non puoi mentire. E quella di De Gregori non è un’improvvisazione. Niente carte di un colore solo. Nessun bluff. Lo scudo bianco in campo azzurro in cui non avrebbe voluto ritrovarsi a cantare non è uguale né simile al prato in cui immortalato dall’alto Francesco De Gregori insegue un pallone alla fine degli anni 70. In quella foto De Gregori ieri come oggi corre, non si ferma ed evolve somigliandosi sempre di più. Nel paese “metà giardino e metà galera” è rimasto sempre in libertà. Da cane nella pioggia nessuno lo può condannare. Da qualche parte dicono che viva bene e che non gli manchi niente. Se è così è perché non si è impiccato a nessun destino. Ha scelto. A volte ha pagato. Non si è mai lamentato. A quelli che gli intimavano “attento: hai esattamente un minuto e mezzo per esternare la tua anima”, ha voltato le spalle e lasciato in dote il mistero. Adesso è tardi anche per chiacchierare e la pazienza di cui De Gregori si armava con certi fonici di fronte alla comprensione del testo: “Ma chi è ’sto Cesare perduto nella pioggia? Ma è un amico tuo?”, preferisce spenderla in un progetto, in un lampo, in una cena con gli amici in cui imbracciare la chitarra e cantare con loro e con Chicca, l’archivista di Repubblica che negli anni in cui ai compleanni si dava il giusto peso in certi appartamenti del centro storico, al risveglio, nel mezzo del caos dell’età scriveva Francesco sembrava una squaw. 


Oggi è il capo di una tribù itinerante (ci sono anche Marco e Federico, i due figli che a loro modo hanno scelto la musica) pronta a muoversi alternando indipendenza e sincronia con De Gregori. Una tribù che da dodici mesi aspetta il segnale di fumo utile a ricominciare ad approdare in alberghi in cui non serve più neanche chiedere il documento d’identità. Ci siamo quasi. Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. Steinbeck, frontiera e canzoni. Ciò che era abitudine sembrerà avveniristico. De Gregori andrà a vedere lo strano effetto che fa. Perle e diamanti di vetro nella giacca. Le città per cantare messe tutte in fila. Il soundcheck. Il concerto. L’applauso del pubblico pagante. Il momento in cui le chitarre vengono riposte, la fisarmonica trova pace, tra il manifesto e lo specchio si spengono le luci e Francesco si sente finalmente libero come una piuma. Un uomo con le spalle larghe la paura non sa nemmeno cos’è e quindi, terminati i bis e strette le mani, il nostro da sempre cammina qualche minuto nella notte. Se ne accende una, non ha rimpianti e ride spesso. C’è silenzio e a volte poco prima dell’alba, quando il buio è più nero, l’aria taglia il fumo. Andarsene forse era scritto, ma restare non era poi così scontato.

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