Damiano David e Thomas Raggi dei Måneskin durante la finale dell'Eurovision (Foto di Dean Mouhtaropoulos/Getty Images) 

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Fenomenologia dei Maneskin, travolti dal successo negli Usa ma considerati divisivi in patria

Stefano Pistolini

Quattro ventenni reduci da un talent show e da un percorso prevalentemente digitale, sono partiti per l'America accompagnati dall’emozione nazionale e da un astuto battage che ha gonfiato la notizia. In Italia, proprio per reazione alla magniloquenza in cui è stata annunciata, attorno alla vicenda si sono mobilitate le emozioni forti

All’indomani del famoso evento di Las Vegas, la mezz’ora di concerto dei Måneskin ad aprire lo show dei Rolling Stones e dell’esordio “live” a New York City, con l’accoglienza benevola, le foto con Mick Jagger e l’interesse dei media Usa, restano gli avanzi del dibattito accaldato che nel frattempo ha scosso l’Italia, tra sostenitori e detrattori della band e dell’impresa in questione, in un fronteggiamento senza concessioni che presuppone visioni del mondo opposte.

 

   

Loro, i Måneskin da Monteverde, Roma, mi pare si possa dire che abbiano fatto tutto per bene. Hanno suonato al meglio, hanno azzeccato costumi di scena, atteggiamenti, pose fotografiche, hanno presentato bene il loro campionario, anche perché ormai hanno alle spalle uno staff di prim’ordine, tarato sul mercato internazionale e perché da un pezzo hanno dimostrato d’avere istinto per la commercializzazione del brand e per la confezione di uno stile capace di sedurre pubblici delle estrazioni più diverse. Il vero carnevale è quello esploso sui social, in particolare su quello più stagionato, Facebook, terreno di scontro tra veterani della critica musicale, cronisti di spettacolo in pensione, musicisti sulla breccia da 6 mesi, 6 anni o anche 60, celoduristi del collezionismo discografico e soprattutto i famigerati “appassionati” tout court.

 

In quest’arena l’apprezzabile impresa promozionale dei Måneskin ha risvegliato passioni sopite – e qui andrebbero rispolverati i ritagli dell’epoca in cui anche la Premiata Forneria Marconi partì alla conquista dell’America, un’altra America, con un’altra musica, e altre culture in circolo, ma insomma tentò l’impresa, si difese discretamente, venne vivisezionata, e poi tornò a casa, con tanti ricordi, qualche soldo e vari ragionamenti da fare. È passato poco meno di mezzo secolo, il progressive è un genere per nostalgici, ma quattro ventenni reduci da un talent show e da un percorso prevalentemente digitale, sono ripartiti accompagnati dall’emozione nazionale e da un astuto battage promozionale che ha gonfiato la notizia.

   
Che in effetti è un artifizio perché, come sanno gli addetti, per un gruppo britannico (ma adesso anche per uno scandinavo o coreano) provarci in America è un’opzione che arriva quasi subito, magari in modo più informale, per tastare il terreno, per misurarsi con la serie A, magari senza management capaci d’intercettare l’interesse e raggiungere un accordo con l’entourage degli Stones – che del resto, a loro volta, possiamo considerare dei vecchi, adorabili vampiri, assetati di sangue giovane. 

  
Da noi invece, proprio per reazione alla magniloquenza in cui è stata annunciata, attorno alla vicenda si sono mobilitate le emozioni forti. Ha tuonato il partito degli sminuitori, quelli a cui il rivisitato suono zeppeliniano dei Måneskin gli va di traverso, il loro esibizionismo paraculo li irrita, soprattutto la sfacciata gioventù di questi ragazzotti gli fa l’effetto di uno schiaffo in faccia e risveglia rimorsi sepolti. Ma ha risposto con vigore la fazione del “ma lasciateli stare!”, i protettori dei Måneskin, benevoli e simpatizzanti, quelli del “non vi va mai bene niente”, del “siete solo degli invidiosi”, che hanno cominciato a sparare aggettivi imbarazzanti, parlando della storia con toni miracolistici e dal sapore paternalistico. 

  
Adesso arriverà l’epilogo di questa guerra tra poveri, il ritorno a casa dei Måneskin: le interviste, le domande su cos’hanno provato e, domanda della verità, la richiesta se dentro di loro si sentano o no veramente rock, parola di tiggì. Rientrare nella normalità italiana per loro non sarà semplice, viene da pensare a una sensazione di spaesamento e a un rapporto singhiozzante con la realtà delle nostre parti. In fondo è la sindrome dell’emigrante partito a cercar fortuna. Osservato da lontano, apprezzato per il coraggio o vituperato per aver lasciato casa senza arte né parte. Infine riaccolto come il figliol prodigo, ascoltato con curiosità e poi, d’un tratto un po’ dimenticato. Quando il brivido del guardonismo si attenuerà, anche loro, i quattro elettrici Måneskin, torneranno a essere solo dei ragazzi che ci stanno provando, approfittando del loro momento di sincronicità.

 

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