Sergio Caputo

L'intervista della domenica

L'etica del Night

Simonetta Sciandivasci

Jack London, Mister Fantasy, Il Sabato Italiano, la Roma da bere, Keith Richards, Kind of blue, il gossip, i quadri. Conversazione con Sergio Caputo

Alcune canzoni di Sergio Caputo sono un filtro, ti fanno un incantesimo, ti convincono a cambiare tutto, solo una volta o tutta la vita. Hanno uno slancio unico e specifico che non ha niente a che fare con l’odioso inspiring e che è quella libidine inquieta che ti fa chiedere: vivo davvero, amo davvero, metto la giusta quantità di gin nel Negroni, vedo abbastanza i miei amici, quanti desideri ho dimenticato, perché non ho ancora comprato una vestaglia di seta, so parlare con i tassisti, mi piace ancora perdere le giornate, perché non vado più spesso al night, alla fine di quante delle mie notti mi viene da dire “la vita è bella, ciao, merci bocù”?

Era la primavera del 1983 quando venne fuori “Un sabato italiano”, la canzone che gli ha cambiato la vita e che, da allora, non ha mai smesso di suonare perché gliela chiedono tutti, sempre, quando fa un concerto, quando va in radio, in tv, sul treno. Gliela chiedono anche persone che in quegli anni non erano nemmeno nate, e però se li immaginano e li invidiano. 

 

Racconta un sabato sera di quando si usciva per tirare tardi, Roma era da bere più di Milano, la notte era “un dirigibile che ci porta via lontano”, si incontravano i viveur, tutto era cinematografico e sognante. Lui aveva ventinove anni, faceva l’art director alla McCann-Erickson e aveva ripreso a suonare da poco, dopo un abbandono durato anni, dalla fine per età adulta della sua rock band dell’adolescenza. Carlo Massarini, che in quegli anni conduceva "Mister Fantasy" (la trasmissione tv di culto che, prima in Italia, trasmetteva videoclip e si occupava di musica nuova), nella prefazione al libro in cui Caputo ha raccontato quella Roma e quel tempo, "Un sabato italiano" (Mondadori), ha scritto: “Sergio non ha niente del tipico cantautore, neanche della nuova generazione. Il suo dono è la leggerezza, lo humor, i giochi di parole. Le sue non sono storie lunghe e complesse, men che meno con un messaggio o con una morale. Piuttosto, una serie di sketch visuali. Il suo ambiente è la notte”.

Di "Un sabato Italiano", Massarini ha scritto che era “fulminante e allegra come una sbronza che si dissolve”. Concordo a patto di una precisazione: nell’allegria di Caputo c’è sempre una tristezza, un peso. L’allegria, dopotutto, contiene la fatica nella sua etimologia, in alacer.  

Il successo strepitoso di "Un sabato italiano" ha avuto un’onda lunghissima ed è arrivato fino a qui, ma Caputo ha fatto altri 15 dischi in studio e tre dal vivo, ha vissuto a Roma, Milano, San Francisco e in Francia, dove si trova adesso.

 

Francia dove?

Non lo dico.

 

Teme i fan?

Ma no, sono schivo, faccio una vita normalissima e mi piace così.

 

Porta la barba lunga.

Quando è nato il mio ultimo figlio, che ora ha tre anni, avevo la barbetta incolta e non potei più curarla, mi venne a mancare del tutto il tempo. I clochard mi fermavano per strada scambiandomi per uno di loro, mi chiedevano informazioni. Era divertentissimo. Ora la curo di più, almeno quanto la curavo quando la portavo da ragazzo. Sono stato un fricchettone, sa? Uno di quelli di Piazza di Santa Maria a Trastevere. Ci andavo tutte le sere, timbravo il cartellino.

 

Però lei ha raccontato soprattutto la Roma degli anni Ottanta.

È quella che ho vissuto di più ed è quella che più mi manca. Era fantastica. Io finivo di lavorare alle sei del pomeriggio, tornavo a casa e dormivo fino alle undici e mezza, poi mi alzavo, chiamavo i miei amici e organizzavamo la serata. Rientravamo all’alba e andavamo a lavorare. Era una vita rovesciata ma bellissima, ne eravamo tutti dipendenti. Ricordo che le volte che non riuscivo a uscire, mi sentivo vuoto. Non è rimasto niente di quella città, di quel brillio tra Trastevere e Piazza Navona dove sembrava davvero che niente potesse mai finire o chiudere. È anche per questo che sono andato via: so che la città che ho amato non tornerà mai così. Spero che, prima o poi, qualcuno si impegni a rimetterla in sesto, ma credo che ci vorranno almeno una cinquantina d’anni.

 

Che brontolone che è.

È vero, lo sono. E sono anche litigioso. Il bello di vivere all’estero è che posso litigare con tutti quanto mi pare.

 

Cosa la innervosisce degli altri?

Non tollero chi non rispetta le regole comuni. E detesto gli sbadati, quelli che ti vengono addosso mentre camminano, quelli che salgono sul treno e si siedono dove capita - prevalentemente al mio posto - perché s’affaticano anche a leggere cosa c’è scritto sul biglietto e allora poi a me tocca discuterci per sedermi al mio posto. Sa quando Fran Lebowitz, nel documentario di Scorsese, dice che a New York lei è l’unica a guardare dove cammina? Per me è lo stesso.

 

Immagino che non abbia mai fatto un compromesso in vita sua.

Mai. Io sono uno che si fa nemici. Salute.

 

Come, salute?

Salute, mentre parliamo bevo il mio aperitivo.

 

Lo ha fatto lei?

Sì, sono un ottimo cuoco me la cavo ragionevolmente con i cocktail. Ho dovuto imparare perché fuori si beve molto male, sempre peggio. Questo che sto bevendo adesso è una specie di Spritz con champagne, ghiaccio, Campari e un pizzico di Aperol per smorzare l’amarognolo.

 

Beve per dimenticare il male viscerale che questo mondo le dà? Mi scusi, non ho resistito.

Non si scusi. A me fa un gran piacere. L’ho scritta io quella canzone, mica un altro. 

 

Non le dà fastidio che le chiedano sempre gli stessi pezzi?

C’è stata una fase della mia carriera in cui tutto “Un sabato Italiano” un po’ mi infastidiva, ora no: se mi chiamano a suonarlo, lo faccio, ma cerco anche di far capire che sto lavorando su altro e che ho sempre lavorato su altro. La maggior parte della mia produzione si è concentrata negli anni Novanta, quando mi smarcai dalle grandi etichette e decisi di diventare indipendente, acquisendo molta libertà ma perdendo ovviamente visibilità. Ogni tanto mi chiedo quanti altri pezzi che potrebbero essere dei successi clamorosi non arrivano mai al pubblico perché chi li scrive non ha la fortuna, l’occasione di farsi ascoltare. E non credo che le piattaforme social, in questo, siano così d’aiuto come si pensa. Le radio sono cambiate, passano spesso pezzi vecchi, e non sono più decisive per la sorte di una canzone, ma niente di tutto questo mi sembra che aiuti a premiare il talento. Durante Sanremo, sono andato ad ascoltare su YouTube un artista che dicevano essere molto seguito: aveva quasi 40 milioni di visualizzazioni. Mi sono chiesto come fosse possibile che, di uno del genere, non avessi mai sentito parlare, sebbene io faccia questo lavoro e sia sempre connesso. Lo streaming ha molti punti interrogativi, anche perché gli stream si possono comprare proprio come si possono comprare i follower, ma quello che davvero mi turba è il fatto che spesso a fare musica non sono musicisti, ma personaggi che usano la musica per fare altro. Sempre di più, non conta quello che sai o non sai fare, ma la nuvola di fuffa intorno a te.

 

"Gossip", il suo ultimo pezzo, parla di questo.

Di questo e della cosa più vecchia del mondo: il fatto che preferiamo il chiacchiericcio all’analisi.

 

E pensare che avrei detto che questa canzone è la prima del suo repertorio che mi sembra sia legata a una contingenza.

Sarebbe bello se lo fosse, ma credo che il gossip sia endemico, invincibile e universale.

 

Come ha fatto a scrivere canzoni che non sono mai invecchiate?

Innanzitutto, non concedendomi ovvietà: quando scrivo un testo e poi mi accorgo che è retorico o già sentito, lo butto via. Sono molto severo. E poi evito gli agganci temporali effimeri che possono far invecchiare una canzone nel giro di sei mesi. Non scriverei un pezzo sui talent, per dire, perché so che non ci saranno più tra un po’. Tutte le volte mi chiedo: questo pezzo tra dieci anni avrà ancora da dire qualcosa? La mia domanda bussola. Non mi aggancio all’attualità o alle polemiche: scrivo di emozioni base perché, se pure le esperienze cambiano in base all’età, le emozioni delle persone sono sempre le stesse. Mi interessa soltanto una cosa: la condizione umana.

 

Cos’è una canzone popolare?

Una canzone che vuoi cantare in spiaggia davanti al falò o in autobus mentre torni a casa. Vuoi cantarla e non puoi farne a meno.

 

Lei ha scritto pezzi molto popolari che però sono pieni di parole bizzarre e inusuali. Eppure, sono tutti impossibili da non cantare, come dice lei. Come ha fatto?

Ho sempre dato priorità al suono delle parole, perché penso che debbano prima di tutto stare bene tra loro. La musicalità non dipende soltanto dalla musica, ma anche dalle parole, appunto. Per questo mi è capitato di arrivare molto dopo a capire alcune mie canzoni.

 

Qual è la canzone che avrebbe voluto scrivere?

"Jingle Bells".

 

Esiste l’ispirazione?

Certo. Una canzone ti attraversa e lo fa sempre nei momenti meno adatti. Ora, per fortuna, ci sono gli iPhone e io posso subito registrare un pezzo, cantarlo così come mi viene in mente, perché a me arriva tutto insieme, musica e testo. Prince diceva che se gli veniva un pezzo all’improvviso, cercava subito di registrarlo perché altrimenti quel pezzo sarebbe andato da Michael Jackson. Aveva ragione. Vede, le canzoni sono già nell’aria. Poi, a un certo punto, ti vengono a trovare. E devi farti trovare pronto e accoglierle.

 

Non c'è mai stato un momento in cui la musica ha smesso di venire da lei?

Mai. Nonostante oggi non serva quasi più a nulla scrivere canzoni nuove, non posso fare a meno di farne. Non mi sono mai fermato, nemmeno in questi mesi, anche se non suono da ottobre.

 

Quindi non ha paura che a un certo punto il flusso la abbandoni?

Francamente, temo molto di più il momento in cui la mia voce si abbasserà e non potrò più cantare. È inevitabile, è un fatto biologico. Però ho un piano b.

 

E cioè?

Suonare la chitarra, prima di tutto. Cucinare e dipingere, due cose che amo moltissimo e nelle quali credo di avere talento. Prima o poi metterò sul mercato i miei ritratti, ma lo farò usando un nome di fantasia, perché ho capito che un artista che faccia qualcosa di diverso da ciò per cui è conosciuto, non viene preso sul serio. Come se poi nascessimo per fare una cosa e basta.

 

Perché, anni fa, ha fatto un disco acustico, "A tu per tu"? La versione acustica toglie o aggiunge?

Io credo che aggiunga, perché la bellezza di molti pezzi si perde spesso nella confusione, nelle registrazioni con tantissimi strumenti, senza considerare che la prima versione che registri di un brano è sempre acerba. Poi, a volte, quando un artista fa l’acustico è per riguardare autonomia sui propri pezzi dalle case discografiche, nel senso che se io faccio “Un Sabato italiano” nel 1985, il master e la registrazione del pezzo appartengono per sempre all’etichetta. Peraltro, siccome la registrazione dei master ha un grande valore, ultimamente, molti stanno vendendo i master, uno degli ultimi a farlo è stato Paul Simon. La mia “Effetti personali” era della CGD ma poi me la sono ripresa suonandola in acustico. “A Tu per tu”, comunque, voleva soprattutto mostrare le nuove possibilità di alcuni miei lavori e voleva anche aprirmi un varco per suonare da solista.

 

Tra Beatles e Rolling Stones cosa sceglie?

Non scelgo. Li prendo entrambi.

 

I suoi tre più amati italiani.

De Gregori, i miei musicisti Fabiola Torresi e Alessandro Marzi, e Max Tortora.

 

Ma Tortora è un comico.

No, suona anche.

 

Ma non mi dirà che è il terzo miglior cantautore italiano di sempre. Suvvia.

Va bene, allora Claudio Lolli. L’ho ascoltato tantissimo e mi aveva affascinato la sua virata jazz, anche se poi non l'ha portata mai a termine.

 

"Anna Di Francia" è una canzone strepitosa.

Sì. Avrei voluto chiedergli chi era questa qua, per evitarla, ma purtroppo non ci siamo conosciuti di persona.

 

A proposito di jazz, mi dica qualcosa che mi convinca ad ascoltarlo.

"Kind of blue" di Miles Davis.

 

Le piace vincere facile.

Molti pensano che il jazz sia ingarbugliato e complesso, invece quel disco è di una semplicità disarmante, si riconoscono tutte le note. Ed è perfetto.

 

Perché è tornato dagli Stati Uniti?

L'America è un paese strepitoso ma difficile, diviso, incolto, molto diverso da come lo vediamo nel film. L’America First è una legge culturale che esiste da prima di Trump. Quando vivevo a San Francisco, volevo assumere mia moglie nella mia società e non ci sono mai riuscito perché prima di poter prendere uno straniero, bisognava dimostrare che quello stesso lavoro non potesse farlo un americano. E questo succedeva sotto la presidenza Obama. Ho abitato in California, la patria degli hippy, con il governatore repubblicano e la pena di morte attiva in ordinamento, che Obama non ha abolito. Io l'ho votato, ma non ho sopportato lo stupore di tutti quando, dopo di lui, è arrivato Trump e ho detestato la mancanza di onestà intellettuale nel cercare di capire perché sia successo. Obama si è comportato da presidente bianco, ha badato sempre a non perdere consenso, non è stato, nei fatti, un presidente di rottura. E ora tutti parlano di razzismo come se prima non ci fosse - vede che succede quando non si fa che chiacchiericcio? Per non dire poi della discussione italiana su questo e, in generale, sulla politica americana. Resto sempre allibito quando vedo che si usa la politica americana per spiegare quella italiana, senza capire e senza sapere che sono due cose incomparabili e lontanissime. Voglio dire, negli Stati Uniti non esiste nemmeno una vera sinistra così come da noi non esiste niente di simile ai repubblicani. 

 

Non le manca nemmeno un po’?

Ogni tanto penso alle docce che mi facevo nella mia casetta a Mill Valley, dall’altra parte del Golden Gate, con una parete di vetro che dava su un bosco di sequoie, spesso passava qualche cervo e pure qualche persona. In quella zona era pieno di casette fatte da cabin assemblate che al primo piano avevano la stanza da letto e al secondo il salotto. Nella mia aveva abitato Jack London, pare avesse scritto lì “Il richiamo della foresta”. 

 

E in Italia?

In Italia vengo spesso, suono tantissimo. E va bene così. Non tornerei a viverci perché un musicista, in Italia, non vive. In Francia sto cominciando a costruirmi una nuova carriera, ho una band con la quale conto di riprendere a suonare appena sarà possibile.

 

Sa che una volta mi sono innamorata di un tizio solo perché mi ha fatto ascoltare “Bimba se sapessi”?

E poi com’è finita?

 

Ora siamo molto amici. Lui è un suo grande fan. Si chiama Matteo.

Ma certo! Il dentista? Mi ha scritto stamattina su Instagram, che coincidenza.

 

No, non è lui. Fa niente. Quante donne ha sedotto? All'inizio del suo libro, "Un sabato Italiano", ha scritto: "Quella in cui ci muoviamo stasera è una giungla arcaica, elementare, cartacea, analogica, meccanica, anche se in compenso ancora sessualmente vivibile: il peggio che ti possa capitare a scopare a vanvera sono le “creste di gallo” o le piattole".

In quel libro mi sono divertito a raccontare gli anni Ottanta al presente, come se fossero il tempo in cui viviamo, però senza cellulari e social network. Non so se son stato un seduttore, mi dicono di sì, di certo ho amato molto e spesso, a lungo la fedeltà non è stata il mio forte. Sedurre le donne era quasi sempre l'obiettivo delle mie serate e di quelle dei miei amici. Eravamo tutti, noi e loro, più facili all'innamoramento.

 

E adesso?

Adesso sono un padre di famiglia e un marito molto fedele e felice. Non gioco a calcio e non faccio sport con i miei bambini, perché sono un papà molto grande, però mi faccio guardare quando suono, dipingo e cucino, e vedo che anche loro si divertono tutti a fare un po' gli artisti. A casa nostra tutti fanno tutto, si sperimenta, se ci manca un tavolo, ce lo costruiamo da soli. Io sono un buon bricoleur. 

 

Il suo piatto forte?

Mi piace la cucina tradizionale. E cerco di rispettarla. Mi manca andare a cena fuori. In Francia non ci sono ristoranti buoni e questo mi dispiace. A me piace moltissimo mangiare fuori, anche da solo. Una volta, a Roma, da Il matriciano, mi sono trovato seduto al tavolo di fianco a Keith Richards.

 

E che ha fatto?

Ho alzato un bicchiere e ho bevuto alla sua. Lui ha annuito, poi ha ordinato bucatini e una caraffa di gin.

 

Lei è spensierato? 

No. 

 

Felice? 

Sì.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.