Mary Cassatt, “Nel palco” (all’Opéra Garnier - particolare), 1878 (Boston, Museum of Fine Arts)

Il sol dell'anima

Mario Bortolotto

“Rigoletto” secondo Mario Bortolotto, o una Critica della ragion teatrale per il melodramma verdiano. Esce, postumo, “Il viandante musicale”

Anticipiamo in questa pagina alcuni passi, dedicati a “Rigoletto”, de “Il viandante musicale” (517 pp., 32 euro), una raccolta di saggi e articoli di Mario Bortolotto che Adelphi manda in libreria a poco meno di un anno dalla scomparsa del musicologo e critico musicale, storica firma del Foglio. Il volume, per le cure redazionali di Jacopo Pellegrini e Roberto Colajanni, sarà in vendita da martedì 3 luglio.


   

Più passa il tempo, meno riusciamo a comprendere come la cosiddetta Verdi-Renaissance, e di Werfel, e della “Ronda”, e di Barilli, e di Strawinsky infine, si valga della “riscoperta” per giustificare poetiche neoclassiche, la pretestuosità testuale, la gratuità dell’azione, la radicale espulsione del babau psicologico, ed infine la riduzione del teatro verdiano a qualcosa di non lontano da Gozzi, e dalla commedia dell’arte.

  

L’impervio rapporto fra i tipi di teatro di volta in volta propostisi alla mente del musicista e la loro trasformazione in teatro musicale

L’immensa carica affabulatrice di questo teatro, la sua finale estraneità ad ogni oculatezza naturalista, o réaliste come si cominciava a dire in Francia, passa attraverso una preoccupazione di segno affatto opposto. Il colore romantico […]; i motivi del (cosiddetto) Romanticismo italiano, o piuttosto lombardo, o lombardo-veneto, da Berchet a Prati; qualche spiffero della vera Romantik; i temi del Romanticismo che oggi definiscono democratico, cioè legato, in tutta Europa, alle rivoluzioni della prima metà del secolo: sono i materiali dell’invenzione verdiana. Nelle sue dichiarazioni che si vorrebbero dir di poetica, disseminate non avaramente nelle lettere, Verdi non parla che di questi. […]

 

Non vi è in Verdi, da Oberto a Falstaff, omogeneità di forme. Ciò che col tempo muta, ma nemmeno progressivamente, è il rapporto quantitativo fra “chiuso” e “aperto”, senza che mai si possa registrare la eliminazione del polo opposto. E ciò che ne regola la distribuzione è sempre la ragion teatrale: di cui nessuno, a tutt’oggi, ha ancora scritto la Critica. Eppure, una Kritik der melodramatischen Vernunft serpeggia, in osservazioni singole, e in Baldini, e in Barilli, e in Baldacci (i tre B della meditazione melodrammatica). Non certo riducibile a schemi “ascensionali”, come in Mila (almeno fino al libro del 1958, di cui la Giovinezza di Verdi del 1974 è una palinodia, quanto autonoma non comprendiamo), ma nemmeno riportabile a una permanenza del paesano, o dell’autoctono, o del “volgare”: che sono proprio le bestie nere del Verdi “teorico”, da un certo momento in avanti. E, in ogni caso, verificabile attraverso l’analisi interna dei singoli lavori, caso per caso, e, s’intende, libretto alla mano.

 

Libretto, insistiamo, nel senso di genere letterario. Non si muove un passo, nella critica verdiana, se non affrontando l’impervio rapporto fra il tipo (i tipi) di teatro di volta in volta propostisi alla mente del musicista, e la loro trasformazione in teatro musicale, e dunque in qualcosa di assolutamente autre. Classicamente, l’operare artistico si fonda sull’estetico, ma è lungi dall’esaurircisi, e anche dall’esaurirlo. A metà circa della sua traiettoria, a trentasette anni, Verdi trova un tipo di melodramma che vuol porsi come musicale equivalente del dramma di destino, lo Schicksalsdrama dei Tedeschi, in cui confluiscono, in chiave moderna, antiche strutture del drama de desengaño. A differenza dei romantici di Germania, Verdi non vede Calderón: lo ritrova negli echi tardi, e tardivi, di Gutiérrez e dello scontroso duca di Rivas.

  

Ma la riduzione dei fatti umani, delle pietose vicende a mero substrato di un’azione estranea, appena pronunziabile, è idea affatto shakespeariana, giuntagli, oltre che dal Modello, dai revival contemporanei, o quasi: la furia che non dà scampo a Carlo Moor, le ragioni sociali che vogliono la fine di Luisa, sono già qualcosa.

 

Certo, del fato innominabile di un miscredente che amava Manzoni, non si può condurre un discorso: se ne verifica la presenza. […]

 

Ne consegue che il suo è un teatro antiumanistico, e, in discutibile accezione, religioso: almeno nella forma della saeva superstitio: “tutto il soggetto è in quella maledizione”.

 

La superstizione, in effetti, è all’incirca quanto Verdi conosce, o piuttosto constata nel meccanismo cieco dei casi. Parleremmo volentieri di tre o magari quattro Verdi, come fa oggi Baldacci seguendo Mila, ma non per riferire la numerazione a fasi cronologiche. I drammi di destino sono un’impresa sensibilmente diversa, ad esempio, dai drammi storici. La macchina viene descritta, in piena Verdi-Renaissance, dal Cocteau librettista di Strawinsky: anche i personaggi di questo Verdi, sono “aux prises avec les forces qui nous surveillent de l’autre côté de la mort”: in Rigoletto, desunto da un maestro della superstizione come Hugo, esse tendono al protagonista “depuis sa naissance, un piège que vous allez voir se fermer là”. […]

 

Vengono aboliti i finali vistosi: di necessità il coro, capitale in Verdi, si accontenta di una funzione di sfondo acustico

Su queste premesse è venuta costituendosi, nelle sue macrostrutture, la vicenda musicale del Rigoletto. Vengono aboliti i finali vistosi: di necessità, il coro, capitale in Verdi, si accontenta d’una funzione di sfondo acustico, diremmo quasi una musica di ameublement: nel primo atto, è un arazzo sonoro. Rientra nel secondo atto, come coretto maschile, a tratteggiare un piccolo clan, o piuttosto una compagnia all’italiana, scioperata e scervellata passabilmente. Nel terzo, in quel susseguirsi di scene a due, a tre, a quattro personaggi (ma quattro per accidente, essendo il quartetto, drammaticamente, la somma di due duetti), come mai s’era prima udito in Verdi, il coro si fa strumento, a bocca chiusa, per evocare il vento: un eolifono umano, dunque, da quel commentatore di storia, o di storie, che il coro personaggio era stato fino alle opere con l’elmo.

 

Vi è poi la soluzione verdiana per eccellenza: non tanto i concertati, quanto le sovrapposizioni di poche linee, le voci fuori campo, cominciando dal Duca nascosto dietro l’albero, e finendo alla trovata fra tutte sconvolgente della voce al risveglio, quando Rigoletto crede di averlo eliminato: la canzoncina della “Plume au vent” – “Souvent femme varie! Bien fol qui s’y fie!” – che nell’originale introduce nel fluire degli alessandrini una voce aigrelette, da piena Renaissance: ma dà ben altro esito in questa sinistra notte di tempesta, per cui un commentatore ha affacciato, con rara felicità, l’accostamento alla Tempesta di Giorgione. […]

 

E’ difficile ascoltare Verdi prescindendo, con rigoroso giudizio musicale, dagli imperativi che lo hanno sollecitato. Quanto probabilmente trovava il consenso morale degli spettatori 1851 (e seguenti) è superato dal tempo: fortunatamente, si crede. Infine, la partecipazione ideologica dell’autore andava a quel padre tirannico, rappresentante di un patriarcalismo che ha nella sessuofobia violenta una delle sue connotazioni tradizionali, e davvero immancabili. Una rosa ariostesca da “salvare”: succede poi che non si salvi, e si muoia per giunta. […] Ma ci sono le vendette dell’invenzione, che in lui sono capitali.

 

Nel Rigoletto, la gran vendetta è della musica: che forse mai, almeno mai in figura di tenore, ha avuto l’agio, la libertà, la noncuranza, l’animale gaiezza, la luminosa vitalità di questo libertino magnifico. Ma già l’indicazione di libertino, ch’è pure di Verdi, è troppo determinata, e riesce riduttiva. Il Duca ha la grazia della natura che Kierkegaard aveva chiamato “estetica”, aperta come una pianta ben fatta, ben salda alla luce rallegrante delle cose, al ritmo intemerato dell’esistere. Figura arcaica, certo, sopravvissuta in un mondo già borghese, con le limitazioni italiane del caso, immagine archetipica della cultura italiana, l’eroe senza scrupoli, la virtù del Rinascimento. Non si avrà che da confrontare la sua musica, segnatamente quella del primo e del terzo atto, per verificare l’asserto: una presenza stendhaliana, con la freschezza di Fabrice, in un’Italia di sempre, che è quella di questo duca come l’altra del duca Ernest V. Infine, un paesaggio della fantasia storica, o della storia fantastica, divenuta mito nazionale. Si noti che questo mito dura dal Rinascimento fino, almeno, agli scrittori della “Ronda”: ma è certo che esso sopravvive, oggi, in forme estranee alla Cultura Ufficiale: in maschere cinematografiche, ad esempio.

 

La presenza davvero unica di un tanto personaggio fa, letteralmente, il vuoto attorno a sé: trae ognuno nel suo miro gurge. Ne impazziscono tutte: Gilda e Maddalena, quanto Giovanna e la Contessa di Ceprano. Ma gli altri, forse lo stesso Sparafucile troppo proclive a risparmiarlo, e certo il protagonista, vengono travolti dal suo fascino (parola di etimo sessuale, non a caso: immagine dell’eterno maschile): l’insospettabile Rigoletto indugia davanti a quell’imago: “questo padrone mio, / giovin, giocondo, sì possente, bello…”.

 

E più vi indugia la musica: mai fino ad ora, in Verdi, così plastica, così evidente: infallibile nel giro delle modulazioni. Sappiamo che il gran monologo di Rigoletto (“Pari siamo!”) fu composto lentamente, cribrato da successive varianti armoniche fino a raggiungere la definitiva. La sua incisività non si discute: ma è certo che gli abbindolamenti esaltanti del Duca, all’una o all’altra donna (“Per voi già possente”, “E’ il sol dell’anima”, “Bella figlia dell’amore”) non si elaborano: si ricevono: sono contemplazioni di ciò che vorremmo essere, di ciò che il giovine Verdi, in parte, forse fu.

  

Il netto precipitare dell’interesse quando, con l’exit del Duca, il suo love affair con Gilda è conchiuso, la faticosa espressività dell’ironia di Rigoletto, la bolsa chiusa del finale secondo, vengono di colpo risollevati quando il caro demonio ricompare, fra i lampi e i bicchieri di vino, nell’altra sua notte.

 

Non si può sfuggire alla tentazione di indugiare sull’aria più celebre di tutto il melodramma italiano. Una vaga reminiscenza mozartiana

Non si può ancora una volta sfuggire alla tentazione fra tutte reprimenda: indugiare sull’aria più celebre di tutto il melodramma italiano. La canzone del Duca viene proposta tre volte: ed è, anzitutto, una chiara melodia tradizionale, spietatamente strofica, imperturbabilmente tonale, e anzi eptafonica, sicché, chi volesse innalzarla di mezzo tono, dal si al do maggiore, potrebbe eseguirla tutta sui tasti bianchi del pianoforte. Vi si insinua una vaga reminiscenza mozartiana: il secondo tema, o piuttosto la testa di esso, nella Sonata in fa maggiore, la parigina (K. 332). (Ma già si sa come tutto il Rigoletto sia una sorta di stampa ottocentesca del Don Giovanni, con quel Monterone che si sforza di attingere l’aura sacrale del Commendatore). Vi è qui, non solo nella introduzione orchestrale, sospesa alla settima battuta, ma, alla ripresa, nella stessa linea vocale, l’effetto, su cui l’opera insiste, della melodia interrotta. I precedenti sono palesi: non si avrà che a pensare la replica di Rosina alla tenera aubade d’Almaviva, quando Don Bartolo sopraggiunge: il colpo secco della gelosia che si chiude. Senza tenerezza soverchia per i suoi fiori melodici (alla lettera: “Veglia, o donna, questo fiore”), Verdi strangola la ripresa del protagonista; più tardi troncherà sulle labbra di Gilda una dichiarazione amorosa, per farla concludere all’innamorato che si svela; su un altro troncamento la fanciulla finirà la sua incauta e lagrimevole istoria. Nella canzone del Duca, il troncamento occorre alla seconda enunciazione, quasi un brandello riecheggiato in piena ebbrezza, cascando di colpo sul letto (il brano, inoltre, pur ripetendo la tonalità della prima volta, si maggiore, è scritto in si minore, con aggiunta degli accidenti, per inserirlo, come frammento incastonato, nel contesto che in si minore si mantiene innegabilmente; ma si osservino anche le indicazioni agogiche e dinamiche: allargando poco a poco, sempre più allargando, allarg., morendo, allarg., e la didascalia: “addormentandosi a poco a poco”, con la chiusa sulla terza maggiore discendente iterata, a molla rotta); la terza volta, l’inno rientra trionfale, e conclude svettando indomabile sul si sopra le righe, accuratamente tenuto in serbo. Prima e terza esposizione sono contrappuntate, sordamente, dal recitativo: dialogo incarognito di Sparafucile e Rigoletto; richiamo orroroso alla realtà nel trasalimento del protagonista solo. Spasmodica la terza volta l’intercapedine di tre battute Allegro, con crescendo, estranee alla metrica originaria. Ma forse su tutte inarrivabile la trovata dello scambio strumentale alla coda, dopo la prima apparizione. Il Duca e Maddalena si sono visti, sta per esplodere il quartetto memorando: intanto il tema cede la sua oltraggiosa facilità a un incupimento d’oboe e clarinetto, all’unisono, come se una minaccia lontana affacciasse la sua indilazionabilità: un colore alla Mahler, Quarta Sinfonia, primo movimento; poi un passaggio al fagotto, di una verità per cui si può spendere senza tema l’aggettivo miracoloso. Sarebbe stato ovvio, se pur appropriato, concludere, ad esempio, col corno, o altro timbro anche più tenebroso. Il fagotto, in registro alto, aggiunge alla paura la sospensione di un’attesa: non si conoscono giustificazioni razionali, e nemmeno linguistiche, per spiegare la necessità. Se non si può pensare che, un tempo, “La donna è mobile” non esistesse, anche più impensabile riesce giustificare altro che con l’adesione consenziente dell’orecchio la presenza stupefatta di quella voce.

 

I sacrifici all’Eros vittorioso non sono nemmeno troppo cari: due soli cadaveri. Manzoni aveva dovuto mobilitare i lanzichenecchi e la peste

Il prima e il poi, il dramma e la musica, sono questioni accidentali: e tali resterebbero anche se noi avessimo una registrazione quotidiana, più che un diario minuto, dei giorni in cui l’aria è stata pensata e composta nelle sue tre manches. Tutti gli equilibri instabili vengono ricondotti alla norma: e anche per questo, per le strozzature precedenti, e per le inclusioni strumentali in primo piano, il Duca deve finire, esaltato, sulla nota più alta che gli venga assegnata, e per l’unica volta, in tutta la partitura: e su un semplice accompagnamento in accordi. Il suo regno è il canto, inconcusso, in una ribalda tradizionalità: il regno di Rigoletto comincia là ove il canto finisce, e s’apre la vicenda del (quasi) parlato. Per questo, o in tal modo (causa e mezzo), il Duca passa immune il trabocchetto bieco.

 

Com’è degli dèi, i sacrifici a quest’Eros vittorioso non sono nemmeno troppo cari: due soli cadaveri, Monterone e Gilda. Laddove il Manzoni, dominato dalla stessa ossessione della rosa, per salvare una Lucia Mondella aveva dovuto mobilitare i lanzichenecchi e la peste di Milano: con necroforie spropositate, insolenti affatto.

Di più su questi argomenti: