La cultura secondo Vargas Llosa, tra frivolezza e rischio idiozia

Marco Valerio Lo Prete

La televisione ha scoperto un genere, le serie televisive, in cui i media possono essere molto creativi.

La televisione ha scoperto un genere, le serie televisive, in cui i media possono essere molto creativi. Ovviamente queste serie offrono una grande fonte di divertimento, originale e sofisticato allo stesso tempo. Tuttavia questo tipo di divertimento è totalmente scevro di attitudine critica. Non è problematico, non ti instilla dubbi o angosce sul mondo in cui viviamo, piuttosto alimenta un senso di conformismo, rassegnazione verso la vita come essa è, apatia invece che impegno, attivismo sociale o politico”. Così Mario Vargas Llosa, romanziere nato in Perù nel 1936 e premio Nobel per la Letteratura nel 2010, in un’intervista rilasciata lo scorso ottobre a questo giornale a margine del premio annuale consegnatogli dall’Istituto Bruno Leoni. Prendere di punta le serie tv – quelle che ciclicamente il pubblico contemporaneo accoglie con commenti standard e ripetuti a cadenza mensile del tipo “questa poi è davvero la migliore che abbia mai visto” – per Vargas Llosa non è un vezzo passatista. Lui stesso dice di averle guardate le serie tv e di essersi pure divertito. Poi però, una volta rimesso al suo posto il telecomando, ecco che arriva quella “malinconia” che assale lo scrittore da tempo, e spesso, dopo l’esposizione alla “cultura” contemporanea, come scritto nel suo pamphlet “La civiltà dello spettacolo” (pubblicato in Italia da Einaudi nel 2013): “Da qualche anno, all’inizio senza rendermene pienamente conto, quando visitavo le mostre, assistevo ad alcuni spettacoli, vedevo determinati film, opere teatrali o programmi televisivi, o quando leggevo determinati libri, riviste e periodici, mi aggrediva la scomoda sensazione di essere preso in giro e di non avere modo di difendermi di fronte a una cospirazione schiacciante e sottile per farmi sentire un ignorante o uno stupido”.   

 

Senso di spaesamento che Vargas Llosa fa discendere dalla sua analisi più complessiva di un mondo in cui “il primo posto della scala dei valori vigente è occupato dall’intrattenimento e in cui divertirsi, sfuggire alla noia, è passione universale”. “Ideale perfettamente legittimo”, aggiunge subito lo scrittore che non si ritiene un “puritano fanatico”, ma che ha conseguenze inaspettate nel momento in cui si trasforma “in un valore supremo”. Conseguenze quali la “banalizzazione della cultura, la generalizzazione della frivolezza e, nel campo dell’informazione, la proliferazione del giornalismo irresponsabile basato sul pettegolezzo e sullo scandalo”. Come si è arrivati a tal punto? Da una parte “il benessere, la libertà di costumi e lo spazio crescente riservato al tempo libero” nel mondo occidentale, frutti nemmeno così indiretti di un periodo di straordinario sviluppo economico, hanno fatto sì che “in modo sistematico ma impercettibile, non annoiarsi, evitare ciò che turba, preoccupa e angoscia, è diventato, per settori sociali sempre più ampi (…) un mandato generazionale, quello che Ortega y Gasset chiamava ‘lo spirito del tempo’”.

 

[**Video_box_2**]Poi ha pesato la cosiddetta “democratizzazione della cultura”. Fenomeno nato da “un proposito altruistico”, perché la cultura in linea di principio non dovrebbe essere un affare riservato delle élite, ma con “effetto indesiderato” quello di “rendere triviale e dozzinale la vita culturale, nella quale una certa faciloneria formale e la superficialità di contenuto dei prodotti culturali erano giustificate dal proposito civile di arrivare a un numero maggiore di persone”. Ma se per “cultura” s’intendono “tutte le manifestazioni della vita di una comunità”, essa allora “si snatura e si svilisce”, “al punto che un’opera di Verdi, la filosofia di Kant, un concerto dei Rolling Stones e uno spettacolo del Cirque du Soleil si equivalgono”. Approfondendo pure la distanza tra cultura iperdemocratizzata e cultura iperspecialistica, “una forma di divertimento per il grande pubblico o un gioco retorico, esoterico e oscuro per gruppuscoli saccenti di accademici e intellettuali indifferenti alla società nel suo insieme”. E quasi niente nel mezzo. Cosa ci perdiamo? Se la cultura è solo intrattenimento, diventa “un meccanismo che ci permette di ignorare le questioni problematiche, di distrarci dalle cose serie”. Una fuga da tormenti e angosce intellettuali, ma pur sempre intensi e legittimi.

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