Cecilia Matteucci Lavarini ritratta con una giacca Dior, epoca Hedi Slimane, appartenuta a Karl Lagerfeld, e un cappello di Philip Treacy della sua collezione 

Il foglio della moda

Intervista a Cecilia Matteucci Lavarini: "Eccentrica? Non ho mai messo un tailleur grigio"

Antonio Mancinelli

Conversazione pungente con la più grande collezionista italiana. Oltre tremila abiti di couture nel guardaroba, idolatrata dai ragazzini come una novella marchesa Casati: “Dovrei insegnare loro a distinguere quel che vale la pena comprare”

Al telefono, la voce gentile di Cecilia Matteucci Lavarini diventa all’improvviso stentorea quando si tratta di parlare con un giornalista che la molesta sul portatile e di cui (“mi scusi, ma di lei non ho mai sentito parlare: chi è?”), finora ignorava l’esistenza. “Allora: inizi il pezzo così. Deve rinnovare i miei ringraziamenti a Bulgari per aver allestito, in modo meraviglioso, centotrentuno miei pezzi della mia collezione, dagli anni Venti a oggi, in dialogo con le straordinarie evoluzioni dell’arte orafa della maison esposti dentro due musei che rappresentano la storia d’Italia: Castel Sant’Angelo e Palazzo Venezia”.  In realtà, di museo lei ne vorrebbe uno tutto per sé, come sostiene le era stato promesso – due stanze a suo nome “per l’eternità” nella Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze –, dall’ormai ex sovrintendente Cristina Acidini. “Ma controlli, controlli pure: la Galleria è chiusa da tempo e chissà per quanto tempo ancora”. Nel frattempo, Matteucci Lavarini inganna l’attesa viaggiando da una città all’altra e comprando vestiti fantasmagorici, meravigliosi, vintage o anche contemporanei, frequentando le aste ma con un occhio attento anche ai mercatini e alle raccolte di privati.

 

Cecilia Matteucci Lavarini ritratta con una giacca Dior, epoca Hedi Slimane, appartenuta a Karl Lagerfeld, e un cappello di Philip Treacy della sua collezione 
  

Dei suoi acquisti ha perso il conto, saranno “circa più o meno tremila tra abiti, borse, cappelli. Kimono giapponesi, completi ottomani da cerimonia dell’Ottocento, gli Chanel, i Balenciaga, i Dior da monsieur Christian fino alla Chiuri, i Saint Laurent, i Prada, i Versace, i McQueen, i Capucci, i Balmain, i Valentino da Garavani fino a Piccioli, un costume di scena di Shirley Bassey dei Novanta disegnato da Douglas Darnell e lavorato con perle e frange che pesa sette chili. Fanno parte della mia collezione anche una mantella di Beer e un Worth, ma pure i capi appartenuti a Maria Callas comprati da Sotheby’s dagli eredi di suo marito Giovan Battista Meneghini, così come altri pezzi del guardaroba di Liliana de Réthy, seconda moglie del re Leopoldo III del Belgio: i suoi vestiti erano magnifici, aveva un ottimo gusto e anche un’ottima guardarobiera. Sa, quella del collezionismo è una malattia. Una felice malattia, sia chiaro. Me l’ha trasmessa mio padre. Io, di mio, non mi sarei mai disfatta di nulla: siccome mia madre ci chiedeva di regalare ai nostri dipendenti le creazioni comprate l’anno precedente, ho perso gli abiti di bel prêt-à-porter di quando ero giovanissima”. Essere buoni è un duro lavoro.

Cecilia Matteucci è una degli eredi dei Grandi Magazzini Fratelli Lavarini di Montecatini, il grande magazzino che per quasi un secolo ha dettato legge in fatto di look e tendenze nella città termale più mondana d’Europa. Ha formato la sua passione per l’eleganza e la dimestichezza con le regole e i retaggi del ben vestire attraverso il marito Giampiero Matteucci, esperto di antichi libri e monete, e il suocero, collezionista d’arte dell’Otto e Novecento, da cui ha appreso e fatto sue le delizie dell’acquisire esemplari rari e preziosi. Alla pari della sua passione per la moda, c’è solo quella per l’opera e per il teatro. Il che corrisponde perfettamente al suo spirito e alla vita vissuta come su un perenne palcoscenico, “stilista di se stessa attraverso le creazioni altrui”, come ha scritto una collega.

 

Il tempo l’ha resa sempre più competente, attenta e veloce nel riconoscere i pezzi doc, abiti nuovi o d’epoca, con ottime credenziali e in perfetto stato di conservazione, ma anche modelli prototipo, mai andati in produzione, e capi delle ultime collezioni, scelti comunque e sempre tra quelli più emblematici, spettacolari, unici, insoliti. Un traguardo raggiunto veleggiando per Sotheby’s e Christie’s in varie città del mondo: da Sotheby’s si è aggiudicata un Versace appartenuto a Jerry Hall; un abito di Dior appeso a lungo nel guardaroba di Leslie Caron; le giacche cinesi, molte, provengono invece dalla collezione di Veniero Colasanti. Due settimane fa ha preso parte all’asta, presso Artcurial in collaborazione con Christie’s, di centocinquanta pezzi di Didier Ludot, antiquario di haute couture la cui boutique, ben nota nel Palais Royal, ha acquisito una reputazione internazionale tra signore eleganti, professionisti della moda, musei e istituzioni. “Didier è gentile: molto spesso, quando ci troviamo insieme a un’asta, mi dice: “Io arrivo fino a quel prezzo, perché poi li devo rivendere, tu vai pure avanti con le offerte”, non è che me li regalasse, sia chiaro. Del resto, non ho mai comprato per investire. Solo per passione”.

 

Cecilia si aggira anche per luoghi italiani di acquisizioni sontuose come Il Ponte a Milano (“dove ho comprato tre abiti di Valentina Cortese e, diversi anni fa, dei meravigliosi abiti in maglia metallica di Gianni Versace”) o Art International Casa d’Aste a Bologna, la città dove normalmente risiede, anche se spesso vive nelle altre dimore di Venezia e Forte Dei Marmi.

Cecilia fa parte del panorama cittadino anche se è una gloria internazionale cui hanno dedicato documentari e tesi di laurea. Se fosse un fiore “rinascerebbe come ortensia”, è sempre in disinvolto equilibrio sui tacchi tra ironia e ostentazione, esibizionismo e goliardia, lusso e stereotipo. Detesta la parola “archivio”: la giudica troppo polverosa perché lei, i suoi capi, li fa vivere. Li indossa, suscitando non poco clamore. “Se tenessi tutte queste cose belle nell'armadio, non le vedrei mai. Quando vado a teatro, in onore dei musicisti, dei direttori d’orchestra, dei cantanti, scelgo le mise più evidenti, ma a me non interessa stupire. Sono gli altri che si stupiscono guardandomi. Al supermercato vado in tuta: pensi che Il resto del Carlino ha pubblicato, durante i lockdown, una mia foto in tenuta streetstyle a fare la spesa. Come dovevo andarci, in Balmain vintage?”. Signora, ma lei è considerata una performer della moda, una body artist! “Così dicono”. Non faccia la modesta. “La modestia non serve a niente”. Ecco.

Alla prima della Fenice ha indossato un altro dei suoi amori folli: un Dior Couture d’oro disegnato da John Galliano: “Mi hanno fotografato accanto a un ministro, così mi sono sentita un po’ ministra della Moda anch’io”. Col make-up che realizza rigorosamente da sola, labbra scarlatte, occhi bistrati e chiome ondulate anni Venti, il suo è un culto della propria immagine che le offre visibilità e stuoli di estimatori che spasimano per lei, novella marchesa Casati perennemente in viaggio sull’asse Milano, Roma, Salisburgo, Parigi, Londra, New York, presenza fissa alle prime di concerti, opere e balletti, agli opening di grandi mostre. Le chiediamo se, data la vastissima ignoranza generale sulla materia, non possa insegnare ai giovani la differenza tra un abito tagliato in sbieco di Vionnet e uno che non lo è, per esempio. “Già, dovrei farlo: dico sempre, nel mio pessimo inglese che “knowledge is power””.

Ora è in agitazione perché è stata coinvolta in un evento all’hotel Majestic “già Baglioni” che fa parte della manifestazione Art City a Bologna. Tra il quattro e il cinque febbraio verrà ricreata la mostra di una notte come quella allestita da Marinetti nel 1914. Vi espose dal tramonto all’alba anche un giovanissimo Giorgio Morandi, autore che la famiglia Matteucci colleziona da tempo. “Mi hanno chiesto di prestare due sue nature morte, un olio del 1948 e un acquerello del 1956. Saranno accostate all’opera realizzata da Riccardo “Corn79” Lanfranco”.

Le domande la annoiano un po’ (“stiamo al telefono da cinquanta minuti, cos’altro vuole sapere?”, sbuffa impaziente), preferisce rispondere - più che con le parole - pescando foto e selfie dal telefonino, inseguendo pensieri e attimi come una bambina. Instagram è la sua vetrina prediletta: “Il mio account non l’ho fatto nemmeno io, ma una mia cara amica: non mi rendo neanche conto di quante persone mi seguano, fatto sta che vengo rincorsa dappertutto da ragazzini e ragazzine che mi urlano dietro quanto mi apprezzino”. Andiamo a vedere in diretta e le dico - lei, meravigliata, “Ma davvero?” - che a seguirla sul social sono quasi in ventimila. Si considera un’influencer? “Ma no, sta scherzando?”.

Alcune realtà del fashion system si sono accorte di lei: Roger Vivier, sotto la guida di Gherardo Felloni, l’ha voluta come personaggio in “Duo des Chats”. Si tratta di un piccolo cortometraggio, diretto da Michael Haussman, che ha come protagonista Catherine Deneuve e Cecilia appare come sua sorella. “E alla cena per il lancio del video, mi sono messa un Yves Saint Laurent maculato che era appartenuto alla Moreau”. Sia sincera, c’è qualcosa che mai e poi mai indosserebbe? “Né infradito, né piumini”. Non è vero: ha detto in un’intervista che ha in guardaroba un imbottito di Moncler. “Sì, ma è in paillettes oro. Ho una sorta di debolezza per i riflessi metallici, dorati o argentati”. Senta, signora: ma quanti soldi… “Fermo là, tanto ho già capito dove vuole andare a parare: bisogna saper comprare”. Perché ogni volta che si legge un articolo su di lei c’è abbinato l’aggettivo “eccentrica”? “Ovvio: perché non mi sono mai messa un tailleur grigio”.

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