Studenti dello IED agli Amazon design awards 2019 (Ansa) 

Sulle spalle dei giganti

Come cambia la formazione specialistica nel sistema della moda

Fabiana Giacomotti

Manifattura, ingegneria gestionale, statistica, marketing, antropologia culturale. Mentre aumenta l'offerta delle imprese del lusso per formare nuovo personale specializzato, che cosa è rimasto del sogno dei giovani di diventare tutti Alessandro Michele?

Fra le tante grandi battaglie in corso nel mondo ce n’è una, silenziosa, priva di spargimento di sangue, che però sta intaccando, modificando e indirizzando un sistema, ed è la lenta, sicura presa di posizione delle grandi aziende della moda anche nel territorio della formazione scolastica superiore di settore. Come dimostra l’importante protocollo d’intesa Altagamma e il Ministero dell’Istruzione, siglato nel 2016 ma ora entrato nel vivo con i primi, effettivi corsi erogati negli Istituti tecnici, è evidente che le imprese non ritengano qualificante e adeguata ai propri standard la formazione tecnica erogata dagli ITS, peraltro e appunto attualmente in fase di profonda revisione, e dunque stiano intervenendo con corsi di alta formazione manifatturiera nelle scuole principali dei distretti calzaturieri e orafi “per rispondere alla carenza di profili e competenze nell’industria dell’alto di gamma”, come dice il direttore generale dell’associazione Stefania Lazzaroni, che stima in circa 270mila le figure tecnico-professionali nel settore dell’alto di gamma che verranno a mancare da oggi ai prossimi tre anni”.

Brunello Cucinelli si è fatto la sua scuola a Solomeo, piccolo atelier dove forma profili sartoriali altissimi per sé e per altre aziende, fornendo insomma non una qualifica ufficiale ma una sorta di patente d’eccellenza, e lo stesso hanno fatto quasi tutte le aziende del lusso con le loro “academy”: Bvlgari, Prada, attiva da ventidue anni o, ancora, associazioni come CNA con la Rmi Academy, fondata addirittura nel 1991 ma solo adesso entrata a far parte di quello che è un sistema di formazione per così dire alternativo non tanto alle università, quanto alle scuole professionali e agli istituti privati, con i quali competono in una professionalità manifatturiera di eccellenza che solo pochi possiedono e possono permettersi (adeguare aule e spazi-studente alle necessità, per esempio, della modellistica, richiede forti investimenti e una lunga tradizione). Questa particolare declinazione della formazione è ovviamente finalizzata all’esecuzione (“non fanno didattica, ma avviamento al lavoro”, osserva Furio Francini, ceo di Accademia di costume e Moda ed ex vicepresidente della Piattaforma Moda), e non è alternativa all’educazione superiore, eppure rappresenta una forte attrazione per i ragazzi, che vengono inseriti in contesti lavorativi di prestigio senza passare per fantomatici master privati (molti, per esempio, tentano l’adesione al bando di un brand dopo una laurea in lettere o in economia: mal che vada, torneranno sui propri passi con un certificato spendibile per altre professioni).

Oltre che nelle dimensioni, il sistema della moda va infatti polarizzandosi anche nella ricerca di personale, nelle qualifiche richieste: da una parte, la manifattura di altissimo livello, per la quale l’industria va attrezzandosi a poco a poco per via autonoma, non di rado riuscendo ad accedere ai fondi regionali per la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro. Dall’altra, l’ingegneria gestionale, il marketing digitale, l’informatica, tutte espressioni dello spostamento progressivo dell’asse del sistema verso l’e-commerce e le professioni collegate, come per esempio la logistica, la statistica, a cui rispondono invece, in generale, i corsi universitari. Al Politecnico di Milano possono confermare che gli ingegneri gestionali hanno richieste di ingaggio da parte delle aziende della moda ancora prima di aver discusso la tesi di laurea.

Le aziende hanno tutto l’interesse ad erogare corsi gratuiti di formazione, come lo è il settore pubblico, secondo quanto dice anche Gianni Scaperrotta, amministratore delegato di NHRG: “ La moda rappresenta circa il 4 per cento dell’intero mercato della somministrazione in Italia con 22.794 lavoratori distribuiti, secondo Assolavoro, fra industria tessile e abbigliamento, leggermente superiori a quelli dell’ industria conciaria e calzaturiera. Dunque, è ragionevole pensare che circa la metà di questo personale somministrato abbia seguito dei corsi di formazione gratuita prima di accedere la posto di lavoro. Questo ci porta ad un numero considerevole di corsi per questo settore, che potrebbe aggirarsi attorno a più di mille in un anno, con un significativo monte ore speso nella formazione del personale.” La richiesta del mercato in questo momento è dunque per le professioni altamente specializzate, sia sul lato tecnico-manifatturiero sia su quello gestionale.

Ma che cosa è del sogno generalizzato dei ragazzi di diventare gli Alessandro Michele del secondo decennio Duemila? La creatività è davvero diventata una commodity, identificabile anche fra chi non abbia seguito corsi di styling e design ma invece, per esempio, di informatica? Gli indirizzi comunicazione degli istituti di moda e delle università sono una fucina di addetti alle vendite nei negozi o di stagisti in piccole agenzie di pubbliche relazioni sempre in attesa del salto nella grande griffe? Una chiacchierata con Lupo Lanzara, presidente della storica Accademia di Costume e Moda che da poco ha ottenuto dal MUR il riconoscimento del titolo di diploma accademico per il corso triennale di “Comunicazione di moda: fashion editor, styling and communication” erogato presso la sede di Milano, permette di identificare – molto spannometricamente in mancanza di dati precisi e ufficiali – in quasi centomila all’anno, italiani ma anche e sempre di più stranieri dopo l’approvazione della legge 212 del 2005 per l’accreditamento di corsi specifici anche nell’area coreutica (yes, per le nostre istituzioni la moda afferisce all’alta formazione artistica e musicale), gli studenti che accedono o frequentano gli istituti di moda, le università e i Master.

Si spazia da nomi prestigiosi come la Marangoni o la stessa Accademia di Costume e Moda, tutti provvisti del famoso laboratorio che mette gli studenti in condizioni di esercitare le proprie inclinazioni anche dal lato pratico, al Polimoda di Firenze, serbatoio di talenti, lo IED, più orientato sul design, oppure l’Accademia di Brera, fino alle università italiane, che hanno approcciato dopo molte resistenze interne le discipline della moda vent’anni fa, inzeppando i corsi di materie classiche, e che ora paradossalmente si trovano in una posizione di forza perché l’antropologia culturale, l’etnologia, le scienze sociali sono diventate bagaglio indispensabile in un settore che mette lo sviluppo della “diversità&inclusione” fra i propri fattori di crescita e le competenze linguistiche riconosciute un elemento importante dei curricula. Alla “Sapienza” di Roma, come conferma la presidente del corso di laurea magistrale Romana Andò, i nuovi iscritti al corso triennale si aggirano sui 300 all’anno, e circa centoventi per il corso di laurea magistrale/master in inglese. Numeri non troppo lontani da questi riguardano Bologna, Firenze o Venezia. Nel sottobosco, che questo settore attira come mosche, si agitano infinite iniziative private, perlopiù master molto costosi, il cui scopo ultimo, duole dirlo, sembra essere quello di collocare studenti di capacità non certificatissime presso le aziende più svariate o usare questi stessi corsi come leve di marketing. Agire, insomma, da agenzia di collocamento o autopromozione.

La piattaforma del Sistema Formativo Moda, presieduto dall’erede della “dinastia Secoli”, Matteo, ha regole piuttosto selettive per l’adesione, senza però riuscire a mettere ordine in un sistema che manda in confusione le famiglie culturalmente meno attrezzate per capire se valga davvero la pena di soddisfare le richieste dei propri figli investendo cifre importanti nel loro sogno. “Mi capita spesso di tentare di indirizzare gli studenti verso professioni più adatte a loro: sono pochi i geni come Michele, John Galliano, Demna Gvasalia o Virgil Abloh (che pure entrambi non hanno formazione nella sola moda: il primo è laureato in economia e finanza, il secondo lo era in ingegneria, ndr), ma non c’è modo di distoglierli dal loro obiettivo”, osserva Massimiliano Giornetti, direttore del Polimoda di Firenze, ex direttore creativo di Ferragamo, laureato in lettere e solo successivamente specializzato in fashion design presso lo stesso istituto. Ovviamente, rinunciare ai propri desideri quando si ha vent’anni è difficile, e bisogna riconoscere che, almeno per quanto riguarda gli istituti più importanti, il tasso di occupazione dichiarato è superiore all’80 per cento. Ma presso piccole aziende, façonisti, realtà di piccolo cabotaggio. Come in ogni altro settore, anche nella moda entrare nella Champions League è privilegio per pochi. Ma cambiare rotta più difficile.