William-Adolphe Bouguereau, “Dante e Virgilio”, 1850 (Parigi, Musée d’Orsay)

Un disumano umanesimo

Maurizio Crippa

Appunti per un invito alla lettura del bel libro di Claudio Giunta sul futuro (se ce l’ha) dell’istruzione umanistica

Se fossimo al tempo dei neocon o delle culture war (acqua passata, Deo gratias), Claudio Giunta lo si potrebbe definire un letterato assalito dalla realtà, o un umanista che si è informato. “Liceo classico, Normale di Pisa, cattedra in Letteratura” nonché saggista brillante, ha scritto per il Mulino un libro intelligente, controintuitivo, con una vena disillusa e pessimistica confessata nel saggio conclusivo: “E se non fosse la buona battaglia?”, che è anche il titolo del volume. La buona battaglia è quella condotta dai “veri credenti”, come li chiama con ironia, che difendono costi quel che costi l’importanza dell’istruzione umanistica. Oggi, nel terzo millennio dell’occidente. Lo si potrebbe circoscrivere come un libro su una domanda per addetti ai lavori, o per la cricca di coloro che per vocazione, caso professionale o per un marcusiano “gran rifiuto” fuori tempo massimo hanno deciso di vivere su questa sponda del fiume della storia. Quelli che, di solito purtroppo, monopolizzano il discorso sull’istruzione e gli humanities, “persone mature o anziane che insegnano discipline umanistiche all’università, e che scambiano il loro frammento, il frammento che li ha creati e all’interno del quale vivono, per l’Intero”. Ma non è così. E’ un libro che invece vale la pena leggere, e quelli che seguono sono solo appunti per un invito alla lettura.

 

Vale la pena non solo per quanti, mi ci metto, fanno parte a vario titolo della congrega degli umanisti, veri credenti o disincantati passeggiatori di antiche rovine che siano. Vale la pena leggerlo per evitare, ogni qualvolta si parla dei destini dell’occidente o del futuro dei giovani, di avere sempre e solo a diposizione le solite inutili domande a bocca aperta, massimaliste e senza risposta: com’è che dominano le fake news? Com’è che trovano tanto seguito le idee populiste? Com’è che i giovani maneggiano più il bullismo che neanche lo smartphone? Com’è che non c’è più rispetto per gli esperti e per il sapere? La necessità di una base di istruzione che sia capire storia, lingua e idee del luogo in cui si è nati è sottesa a queste domande. Ma è corrosa: non da un dubbio, bensì da una serie di dati della realtà. Ha ancora senso, oggi, studiare storia o filosofia? E addirittura insegnarle a scuola, con dispendio mnemonico e di ore, a giovani che sono nati e vivono (e anche benino, si dimentica sempre di ammettere) nel flusso informativo e della pluralità dei device? In un mondo dominato alla scienza e della tecnologia, e non dalle arti del Trivio. Guidato da un’economia che è a un tempo causa ed effetto del predominio di scienza e tecnica. Un mondo che offre lavoro e opportunità, ma solo a patto di iscriversi alla gara su questa sponda del fiume della storia, e che di filologi della lirica provenzale non sa che farsene?

 

La collega filologa parlando del figlio neonato: "… mai, mai gli permetterò di studiare quello che ho studiato io, a costo di azzopparlo"

Bisogna prenderla di petto, con cattiveria. Non come negli storytelling della Buona scuola, che “espelle dal suo raggio d’attenzione il Negativo, che è poi un altro nome del Reale” (c’è un capitolo anche su questo). Perciò si parte da una citazione da un altro mondo, eppure è solo pochi decenni fa: “In Mio figlio professore, anno 1946, il bidello Aldo Fabrizi riceve la notizia che gli è appena nato un figlio. Un insegnante gli chiede che cosa diventerà, che cosa farà nella vita questo erede. ‘Er professore de latino!’”. E si parte, sul filo della concretezza autobiografia e quotidiana, da un elenco di lamentationes: “Il collega che definisce ‘candidati al suicidio’ i venticinquenni che stanno lavorando una tesi di dottorato in letteratura inglese, o in linguistica, o in letteratura italiana; il collega che chiama ‘martiri’, a metà tra l’ammirazione e la pietà, gli iscritti al primo anno di Lettere; la collega filologa che, parlando del figlio neonato, mi scrive che ‘…mai, mai gli permetterò di studiare quello che ho studiato io, a costo di chiuderlo in casa, di azzopparlo!”; il collega classicista che scrive una lettera all’insegnante di latino e greco della figlia ringraziandola ‘per non averle trasmesso neanche una goccia d’amore per quelle discipline: mi sarei ritrovato in casa una laureata in Lettere classiche disoccupata e frustrata’”. Non serve altro. La traccia del tema è esplicativa. Una – anzi due – domande chiave: ha ancora senso la cultura umanistica? Ha ancora senso studiare le materie umanistiche?

 

E’ un libro complesso e multistrato, bisogna fare qualche taglio e qualche distinguo. Ad esempio, insegnare le materie umanistiche alle superiori o frequentare una facoltà umanistica sono due cose diverse. Scegliere l’università diventa la scelta di un ambito professionale e di vita. Significa entrare, consapevoli, in una specializzazione settoriale e di linguaggi come per ogni altro settore. Si possono avvertire i giovani che ci sono meno posti da archeologo che da ingegnere informatico, si possono programmare esami d’ammissione e numeri chiusi, ma finisce lì. Non esiste una inutilità a priori dell’accademia umanistica. Ci sono gli appunti sulla Buona scuola, il tema del reclutamento e della formazione. Li lasciamo per altri articoli, qui interessa altro.

  

Smettere di parlare delle "materie umanistiche" e andare al nocciolo. "La conoscenza sta all'informazione come l'arte sta al kitsch"

La carne viva del problema non è nemmeno che sbocchi professionali esisteranno in futuro per gli umanisti, o se il bagaglio del nostro attuale liceo classico (la “difesa del classico” è una variante della “buona battaglia”) sia adatto per affrontare poi studi superiori tecnico-scientifici. Il problema è se insegnare le materie umanistiche – lingua, letteratura, storia e filosofia, arte e musica – abbia ancora un senso, di per sé. In un mondo in cui “nessuno arriva a quarant’anni e un giorno, mentre sta facendo tutt’altro, lo assale il rimorso di, mettiamo, ‘non aver fatto Torquato Tasso’ alle scuole superiori”. Innanzitutto c’è un macroscopico problema di come e cosa insegnare. Avendo a disposizione, noi italiani, una storia della letteratura che ha dato il meglio di sé dal Trecento al Cinquecento, galassie lontane anche per il più sensibile e attrezzato dei quindicenni (il dannato problema di “attualizzare”). Con sempre meno ore a disposizione, riforma dopo riforma, e sempre più addendi all’addizione insolubile dei programmi. E con la concorrenza sacrosantissima delle materie scientifiche, e in futuro dell’iPhone della ministra Fedeli. Avrebbe senso, dice Giunta, stralciare, sfoltire, cambiare e internazionalizzare il parco autori. Soprattutto, più difficile, bisognerebbe salvare gli studenti dall’essere “obbligati non a leggere ma ad analizzare”. Si facesse questo, anziché costruire castelli di carta di competenze astratte, con linguaggi astrusi, per formare “competenze” inutili che cancellano ogni gusto, interesse, “attualità” di quel che si studia. C’è un delizioso “a parte” dedicato ai manuali e al disastro che, assieme ai teoreti della didattica, i libri di testo producono. Nei manuali “la parte didattica contempla una sezione sulla ‘didattica per competenze’, una serie di ‘percorsi attualizzanti’ e un’infinità di domande sui brani antologizzati. Per metà, tre quarti, si tratta di prendere sul serio cose, cioè deliri pseudo-pedagogici, che serie non sono”. “Violentati da anni di circolari ministeriali, stage pedagogici e teoria della letteratura mal digerita, molti insegnanti (anche all’università) scrivono infatti in scuolese, un idioletto nel quale ogni linea retta diventa un arabesco, e anziché dire ‘cerca nel testo le parole” si dice “ricerca nel testo i lessemi”, anziché dire “confronta” si dice “esegui una comparazione”, anziché dire “trova il verso in cui il poeta” si dice “rintraccia il verso in cui l’io lirico”. No. Non vale la pena insegnare e studiare così. Per tutto il resto, c’è Google.

 

Ma qui si arriva a un dunque interessante. Racconta Giunta che, anni fa, ha scritto con aiuti un manuale per le scuole superiori, cercando di metterci uno spirito e una lingua meno dottrinari. “A manuale concluso, quando si trattava di scegliere un’immagine significativa per la campagna pubblicitaria” che suggerisse lo spirito dell’impresa, “abbiamo scelto un fotogramma di un film famoso: Antoine Doinel, che guarda in macchina nella lunga sequenza sull’oceano su cui si chiude I 400 colpi di Truffaut… Alla fine c’è del vero: i libri servono anche e soprattutto a questo, a dare una chance di crescita a chi non se l’è trovata nel corredo il giorno della nascita”. Siccome la foto di scena di quella sequenza è lo sfondo del mio profilo Twitter, credo di capire che cosa intendesse Giunta. E sperò che riuscirà a intuire quel che sto per dire. Il prodotto di filosofi scrittori pittori, i fatti della storia – le opere e i giorni – non hanno un valore assoluto (con obbligo di studio) in sé. Servo per dare una chance all’umano che è in ogni essere umano per incontrare se stesso.

 

 Un mondo in cui "nessuno arriva a quarant'anni e un giorno lo assale il rimorso di, mettiamo, 'non aver fatto Tasso' alle superiori"

Non si studiano le materie umanistiche in quanto materie, e del resto non hanno più alcuna utilità pratica. Si studiano, per usare l’intuizione di Alain Finkielkraut citato da Giuliano Ferrara una settimana fa su queste pagine, “per evitare che il pensiero divenga definitivamente privo di materia”. L’essenza del perché studiare, o insegnare, le materie umanistiche non sono le materie. Nella pagina web dell’Università di Stanford, ho trovato sul web, c’è scritto: “Le discipline umanistiche possono essere intese come lo studio dei modi in cui gli individui processano e documentano l’esperienza umana. La conoscenza di questi registri (filosofia, letteratura, religione, arte, musica o storia) ci dà la possibilità di stabilire una connessione sia con chi ci ha preceduto, sia con i nostri contemporanei”. E’ ineccepibile, e insieme è la perversione di ciò che nelle nostre civiltà è la radice dell’“umanesimo”. Il segno che la civiltà delle macchine (“gli individui processano e documentano”) ha vinto.

 

“Umanesimo” e “materie umanistiche” sono due cose profondamente diverse, è sbagliato usarli come sinonimi. Tradurre Tacito, guardare Piero della Francesca, persino leggere Dante in quanto materie non serve. Si può valutarne l’utilità, e persino la soppressione. Che la bellezza salverà il mondo non è così sicuro, è uno scongiuro di Dostevskij che gli umanisti fanno proprio. Ma glihumanities sono stati assorbiti come una categoria merceologica del consumo culturale. Un mercato saturo, con poco futuro. C’è un salto da fare, e magari sarà il prossimo libro di Claudio Giunta. E’ smettere di parlare delle “materie umanistiche”, e andare al nocciolo. Un paio d’anni fa, sul Foglio, abbiamo pubblicato lo splendido discorso tenuto ai laureati della Brandeis University, ateneo umanistico, dal grande critico americano Leon Wieseltier, una superba, urgente, difesa del sapere umanistico contro la desertificazione di una cultura rapida e sciatta: “Voi onorate una civiltà che è stata fondata sulla ricerca del vero, del bene e del bello”, disse. “Sono onorato di potervi parlare stamattina, dato che negli ultimi anni sono arrivato a concepire l’impegno negli studi umanistici come un atto di ribellione intellettuale, o di dissidenza culturale”. Wieseltier dice che “le macchine di cui siamo divenuti schiavi, tutte abbastanza stupefacenti, rappresentano il più grande attacco all’attenzione umana mai concepito: sono motori di dispersione mentale e spirituale”, ma non è un luddista. E’ un fiero conservatore, o diciamo piuttosto che è un sostanzialista in un mondo dominato dai funzionalisti (” Whatever Works”, direbbe Woody Allen) e dall’utilitarismo filosofico. Oppone all’opinione comune che “nell’universo digitale, la conoscenza è ridotta allo status di informazione”. “Chi ricorderà più che la conoscenza sta all’informazione come l’arte sta al kitsch”. Non esiste quindi alcun compito più urgente, diceva a quei giovani umanisti, “che ricostituire l’antica distinzione – una volta contestata duramente, poi generalmente accettata, ora quasi completamente dimenticata – tra lo studio della natura e lo studio dell’uomo”. E concludeva: “Avete avuto la sfrontatezza di scegliere l’interpretazione rispetto al calcolo, e di riconoscere che il calcolo non può fornire un quadro accurato, o un quadro approfondito, o un quadro completo, di esseri che si autointerpretano quali noi siamo; e io vi elogio per questo”. Esiste l’umano, non le materie umanistiche. Esiste Antoin Doinel che guarda l’oceano.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"