Manifesto per la resistenza umanista

Redazione

Il critico Leon Wieseltier non è tipo che si balocca nella torre d’avorio. Da quando è stato nominato capo della sezione letteraria di New Republic – era il 1983 – non ha mai smesso di combattere nell’arena delle idee dalla sponda liberal. E’ stato un sostenitore della guerra in Iraq, ha appoggiato i neoconservatori del Project for a New American Century, ha chiesto a Barack Obama di intervenire in Siria per detronizzare Bashar el Assad e nel frattempo ha tradotto poesie dall’ebraico e scritto meditazioni sulle preghiere funebri della tradizione veterotestamentaria. Si è occupato di letteratura, filosofia, cultura pop e senza cadere in uno sciapo luddismo ha criticato la dispersione dell’esperienza di questo “essere che si autointerpreta” (secondo la lezione di Charles Taylor) in un’infinità sconnessa di byte e tweet. E’ un erudito snob che si presta volentieri alle comparsate nei “Sopranos”. Nel discorso ai laureati della Brandeis University – istituto a vocazione umanistica – pubblicato qui sotto difende il sapere umanistico e la sua scintillante inutilità dalla desertificazione di una cultura rapida e sciatta: “Voi onorate una civiltà che è stata fondata sulla ricerca del vero, del bene e del bello”.

C’è mai stato un momento nella storia americana in cui gli studi umanistici siano stati ritenuti meno preziosi, e c’è mai stato un momento nella storia americana nel quale gli studi umanistici siano stati più necessari? Sono onorato di potervi parlare stamattina, dato che negli ultimi anni sono arrivato a concepire l’impegno negli studi umanistici come un atto di ribellione intellettuale, o di dissidenza culturale.

Da decenni in America assistiamo a una denigrazione costante e nauseante della conoscenza umanistica e del metodo umanistico. Viviamo in una società inebriata dalla tecnologia, felicemente, addirittura inconsciamente, governata dai valori di utilità, velocità, efficienza e convenienza. La mentalità tecnologica – la lente attraverso la quale l’America guarda il mondo – ci addestra a preferire questioni pratiche a questioni di significato – ci si chiede non se le cose sono vere o false, se sono buone o cattive, ma come funzionano. La nostra ragione è diventata una ragione strumentale, non è più la ragione dei filosofi, con la sua antica magnitudo di ambizione intellettuale, la sua convinzione che i temi propri al pensiero umano siano i temi più vasti, e che la mente, in un modo o in un altro, possa penetrare i princìpi più autentici della vita naturale e della vita umana. La filosofia stessa è ripiegata sotto il peso della nostra debolezza nei confronti dell’utilitarismo – la filosofia moderna americana è stata in realtà una delle cause di tale debolezza – e generalmente anch’essa preferisce aggiustare e ritoccare.

Le macchine di cui siamo divenuti schiavi, tutte abbastanza stupefacenti, rappresentano il più grande attacco all’attenzione umana mai concepito: sono motori di dispersione mentale e spirituale, che ci rendono più grandi soltanto perché meno profondi. Ci sono pensatori, e anche rispettabili se riuscite a crederci, che proclamano che la crescita esponenziale dell’abilità computazionale ci porterà presto ben oltre la limitatezza dei nostri corpi e delle nostre menti in modo che, come uno di loro dice, non ci sarà più alcuna differenza fra uomo e macchina. La Mettrie vive nella Silicon Valley. Questa, ovviamente, non è un’apoteosi dell’umano, ma l’abolizione dell’umano; ma Google ne è particolarmente felice.
Nell’universo digitale, la conoscenza è ridotta allo status di informazione. Chi ricorderà più che la conoscenza sta all’informazione come l’arte sta al kitsch – che l’informazione è il tipo più infimo di conoscenza, dato che è il più esteriore? Un grande pensatore ebreo del Medioevo si chiedeva perché Dio, se davvero avesse voluto che conoscessimo la verità su tutto, non ci avesse semplicemente detto la verità su tutto. La sua saggia risposta fu che se ci avesse semplicemente detto quello che avevamo bisogno di sapere, noi non lo avremmo, a rigor di termini, conosciuto. La conoscenza si può acquisire soltanto nel tempo e solamente con metodo. E i dispositivi che ci portiamo in giro come se ne fossimo dipendenti stanno deturpando le nostre vite mentali anche in altri modi: ad esempio, generano un numero finora inimmaginabile di numeri, numeri su tutto quello che esiste, e ci trasformano in una cultura di dati, in un culto dei dati, nel quale nessuna attività umana e nessuna espressione umana è immune dalla quantificazione, nel quale la felicità è un soggetto adatto agli economisti, nel quale le traversie del cuore umano sono inappropriatamente traslate in espressioni matematiche, lasciandoci con nuove illusioni di chiarezza e nuove illusioni di controllo.

La sfavillante èra del tecnologismo è anche una sfavillante èra dello scientismo. Lo scientismo non è la stessa cosa rispetto alla scienza. La scienza è una benedizione, lo scientismo è una maledizione. La scienza – intendo quella che gli scienziati veri praticano – è ammirevolmente conscia dei suoi limiti, umilmente ammette il carattere provvisorio delle sue conclusioni; ma lo scientismo è dogmatico, e spaccia certezze. E’ sempre pronto a fornire soluzioni a ogni problema, dato che crede che la soluzione a ogni problema sia scientifica, e quindi fornisce risposte scientifiche a domande non scientifiche. Ma persino la questione del posto della scienza nell’esistenza umana non è una questione scientifica. E’ una domanda filosofica, cioè umanistica.

A causa della propensione alla spiegazione totalitaristica, lo scientismo trasforma la scienza in un’ideologia, il che è ovviamente il tradimento del suo spirito sperimentale ed empirico. Non esiste alcuna perplessità dell’umana emozione o dell’umano agire che non venga accreditata alla genetica o spiegata nei presuntuosi termini della biologia evoluzionistica. E’ vero che il gene egoista è stato recentemente rimpiazzato dal gene altruistico, più carino certamente, ma è comunque il gene che domina. Lo scientismo liberal non dovrebbe essere per noi più filosoficamente attraente dello scientismo conservatore, dato che anch’esso riduce con arroganza tutte le aree che abitiamo in una singola area, e ci fa cadere nella tentazione di credere che l’eschaton epistemologico sia finalmente arrivato, che finalmente conosciamo quello che abbiamo bisogno di sapere per gestire saggiamente gli affari umani. Questo credo è invariabilmente falso, e occasionalmente disastroso. Stiamo diventando ignoranti dell’ignoranza.

Non esiste quindi alcun compito più urgente nella vita intellettuale americana in questo periodo che offrire resistenza all’imperialismo combinato di scienza e tecnologia, e di ricostituire l’antica distinzione – una volta contestata duramente, poi generalmente accettata, ora quasi completamente dimenticata – tra lo studio della natura e lo studio dell’uomo. Come Bernard Williams una volta ha rimarcato, “‘umanità’ è un nome non solo per una specie ma anche per una qualità”. Voi che avete scelto di votarvi allo studio della letteratura e delle lingue e dell’arte e della musica e della filosofia e della religione e della storia – voi siete i rappresentanti di tale qualità. Voi siete la resistenza. Avete avuto la sfrontatezza di scegliere l’interpretazione rispetto al calcolo, e di riconoscere che il calcolo non può fornire un quadro accurato, o un quadro approfondito, o un quadro completo, di esseri che si autointerpretano quali noi siamo; e io vi elogio per questo.

Non credete alle voci che dicono che il vostro percorso è obsoleto. Se Proust fosse stato un neuroscienziato, allora non avreste alcun bisogno della neuroscienza, avendo Proust. Se Jane Austen fosse stata una studiosa della teoria dei giochi, allora non avreste alcuna ragione di dedicarvi alla teoria dei giochi, avendo Austen. Per opporsi all’accelerazione ciarliera della consapevolezza americana non vi è baluardo più grande dell’incontro con un’opera d’arte, e dell’esperienza di un testo o di un’immagine. Siete i rappresentanti, i residui salvifici di tale incontro e di tale esperienza, e del serio studio di tale incontro e tale esperienza – cioè, voi siete la controcultura. Forse ora la cultura è la controcultura.

Quindi non perdete la testa. Non esitate. Siate molto orgogliosi. Usate nuove tecnologie per vecchi scopi. Non fatevi innervosire dai numeri, che non saranno mai germogli di saggezza. Nel sostenere gli studi umanistici, onorate una civiltà che è stata fondata sulla ricerca del vero, del bene, del bello. Perché fino a che saremo creature senzienti, creature che amano e immaginano e soffrono e muoiono, gli studi umanistici non saranno mai superflui. Da oggi in poi agite come se foste indispensabili alla vostra società, perché – che essa ne sia consapevole o no – lo siete.

di Leon Wieseltier
è il capo della cultura del magazine The New Republic. Questo è il discorso che l’intellettuale liberal ha tenuto alla cerimonia della consegna dei diplomi alla Brandeis University, il 19 maggio scorso.
    (traduzione di Sarah Marion Tuggey)

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