Valerie Steele via Wikipedia  

Foglio della Moda - Intervista via Zoom

Per fare vestiti studiate i classici. L'intervista a Valerie Steele

Antonio Mancinelli

“Non bisogna adattare i corsi ai desideri di chi si iscrive”, dice la curatrice del Museo del Fashion Institute of Technology e massima teorica del sistema 

Come tutti i veri intellettuali con uso di mondo, Valerie Steele è abile schermitrice di sé per cui, quando le domando se ancora sia docente, oltre che sovrintendente e curatrice del Museo al Fashion Institute of Technology di New York risponde: «L’ho già fatto per molto tempo, nella vita. Ciao ciao, insegnamento!» con un gesto delle mani modello Rappresentante di Lista a Sanremo. Se lo può permettere. Ha scritto ventotto saggi filosofico-antropologici («o giù di lì, adesso non ricordo il numero esatto», sorride) sui simboli e le trappole culturali del vestire, allestito qualcuna di più di venti mostre, fondato e diretto Fashion Theory: The Journal of Dress, Body & Culture, la prima rivista accademica di studi sulla e della moda. È stata definita da Suzy Menkes “il Freud della moda”, dal Washington Post “una delle donne più cerebrali dell’estetica contemporanea”, dal New York Times “la storica in tacchi a spillo”: in effetti potrebbe essere una terapeuta woodyalleniana quando appare sullo schermo in look da newyorkese impegnata. Veste in total black, porta una borsa d’autore priva di logo che, da quanto vedo attraverso lo schermo del pc, ha abbandonato sulla scrivania bianca. Il suo unico vezzo sono gli occhiali di vista da pin-up anni 50, un po’ alla Marilyn Monroe in “Come sposare un milionario”.

 

Combina un’illuminazione liberale con l'umorismo della curiosità permanente e il rigore accademico; mix che si ritrova nei suoi libri che certi amanti delle parole d’impatto, oggi definirebbero “seminali”: uno per tutti, “Fashion and Eroticism: Ideals of Feminine Beauty from the Victorian Era Through the Jazz Age”.

Partiamo da un’opinione condivisa: ci sono troppi aspiranti stilisti e troppo pochi professionisti “in grado di soddisfare le richieste di un’industria che nel corso del tempo è cambiata moltissimo. Oggi le scuole dovrebbero coinvolgere gli studenti in corsi che riguardino l’art direction, la comunicazione visiva, il marketing, lo studio del packaging, il retail ma allo stesso tempo incentivare studi di modellistica, di archivistica, di tecniche d’artigianato, di sociologia, di psicologia di massa. La moda oggi vive di antinomie, divisa com’è tra memoria e transitorietà, tra ripescaggi e sperimentazione, tra scienza ed estro. E soprattutto, quello che si dovrebbe insegnare ai giovani è far colloquiare mondi diversi: se in questo momento, per esempio, una delle professioni più remunerative è quella di chi si occupa di cosmetica: perché non applicarne il metodo di diffusione al mondo degli abiti?”. Come direbbero i colleghi più colti, quello proposto da Steele per la formazione nel settore, più che multimediale, è un approccio crossmediale: “Si deve imparare la moda con ogni strumento possibile e non semplicemente adattarla ai desideri di chi si iscrive”. E infatti, tra le materie più urgenti non ancora sufficientemente accolte in ambito accademico ci sono, prima di tutto, la sostenibilità e la storia delle relazioni umane. “Sento necessario un corso di antropologia culturale (l’approccio accademico delle scuole di moda americane e in genere dell’accademia d’Oltreoceano è molto diverso da quello europeo. Nelle università italiane che erogano corsi di Scienze della Moda, solitamente inseriti nelle facoltà di Lettere e Filosofia, questo insegnamento è previsto e suggerito, naturalmente. All’Università di Roma “La Sapienza” è addirittura inserito nel Dipartimento SARAS: Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo, ma lo stesso genere di approccio è condiviso all’Università di Bologna. ndr), dove insegnare le caratteristiche specifiche di un Paese e della sua produzione espressiva, come anche quello di uno studio sulle discipline legali legate ai temi dell’appropriazione culturale o della legislazione, in un settore come quello della moda virtuale, dove non c’è ancora alcuna chiarezza o legge. Se fossi una designer e copiassi un modello di un altro designer ma solo nel metaverso, dove si potrebbe trovare il foro di competenza, se mi volessero denunciare per plagio? L’affermarsi di un fenomeno come quello degli NFT (i non fungible token, opere digitali, uniche, non modificabili, registrate su blockchain e pagabili solo con bitcoin, ndr), richiederà abilità giuridiche su una materia non ancora chiara e quindi, in un certo senso ancora da inventare. Anche questa è visionarietà, ma è una capacità d’immaginazione che si può prevedere e insegnare: gli abiti virtuali e le mostre storiche diventeranno sempre più importanti in futuro, perché non si tratta di moda in senso stretto, bensì di immagini di moda e di come sia stata veicolata in passato e ai giorni nostri su un terreno che, in fondo, è sempre lo stesso: la silhouette del corpo femminile”.

 

Steele è passata dal dottorato a Yale in storia culturale europea moderna ad incarnare la prima docente universitaria che abbia unito i puntini tra vestiti, storia, sociologia, politica, economia e psicoanalisi: “La mia compagna di corso Judy Coffin aveva letto degli articoli sul giornale femminista “Signs” che mettevano in discussione il significato del corsetto vittoriano. Era opprimente e pericoloso per le donne? O era sessualmente liberatorio? Mi si è accesa una lampadina: la moda fa parte della cultura. Non mi rendevo conto che mi stavo spianando una carriera da disoccupata per l’intero decennio successivo: alla maggior parte degli accademici, sembrava un argomento totalmente ridicolo, in quanto a loro dire superficiale. Il punto è che la moda è un argomento superficiale, deve esserlo perché la ospitiamo sulla superficie dei nostri corpi: e questa inimicizia degli intellettuali verso le cose, gli oggetti, tutto ciò che è tangibile invece che cerebrale, è un pregiudizio durissimo a morire”.

Le faccio notare che lei si è vendicata affermando in varie interviste come il mondo degli accademici sia “il gruppo occupazionale della classe media peggio vestita d’America». Ride, mentre le chiedo se sia il caso di introdurre negli studi per la formazione di moda, delle lezioni proprio di gender studies.

“A me sembrerebbe utilissimo, anche per approfondire che tipo di consumo sarà quello più praticato dalle generazioni più giovani. La fortuna dei nostri studenti è di studiare accanto a un museo che permette loro di osservare come vestirsi e come questo abbia cambiato la percezione e le conformazioni delle anatomie: infatti sarebbe altrettanto adeguato organizzare studi di sartoria. Anche questo potrebbe essere un utile strumento per esprimere resistenza alla cultura dominante”. Teoria e pratica, quindi. Quando discorriamo se sia più o meno uno stereotipo che per gli europei le scuole di moda americane siano più devote all’aspetto fattivo e quelle italiane o francesi a quello concettuale, per un momento sul volto di Valerie tramonta il sorriso: “Mi sembra più un cliché di matrice europea nei nostri confronti, piuttosto che il contrario. È vero: le scuole di moda americane tendono, parlando in generale, a elaborare un piano scolastico adatto a una formazione più destinata a un prodotto che a un’opera d’intelletto. Negli istituti francesi, inglesi, italiani o giapponesi, gli studenti sono stimolati più a ritenersi “autori” che “traduttori” dello Zeitgeist. Però, a proposito di stereotipi, quando tengo conferenze in Francia, il comune sentire è lì ci siano i veri creatori di tendenze, mentre in Italia ci siano solo dei buoni produttori di abbigliamento. Quindi meglio non fidarsi troppo dei preconcetti”. Mrs Steele ha un sogno che vorrebbe realizzare: “Un grande racconto aperto a tutti, da concretizzare attraverso i mezzi che la pandemia ci ha insegnato a usare, tra vari istituti sparsi nel mondo per osservare e imparare come la moda venga studiata in geografie diverse, in scuole diverse, attraverso argomenti diversi”.

 

C’è da definire anche il ruolo del mentore, una figura che ritiene molto importante: del resto, durante le rigide selezioni per entrare al Fashion Institute of Technology molti aspiranti studenti alla domanda su cosa e chi desiderino diventare, rispondono: “Voglio essere Valerie Steele!”. Sorride compiaciuta, sostiene che forse hanno questo progetto di vita perché ormai è “così vecchia da rappresentare una specie di figura retorica”. Però, «il ruolo della mentorship è davvero diventato basilare. L’industria della moda ha visto sempre, dappertutto, espandersi tante forme di nepotismo: così designer poco bravi diventano famosi e stagisti bravissimi rimangono nell’ombra”. E lei, quali mentori ha avuto, all’inizio della sua carriera? “Io? Ma neanche uno”.

 

Di Antonio Mancinelli, docente di Storia della Moda all’Accademia di Costume e Moda di Roma, è appena stato pubblicato il testo “L’arte dello styling. Come raccontarsi attraverso i vestiti”, edito da Sonzogno e scritto con la stylist Susanna Ausoni, che si potrebbe definire la “vincitrice vestimentaria” dell’ultimo Festival di Sanremo: suoi, infatti, i look di Mahmood, Noemi, Matteo Romano, Emma Marrone, Francesca Michielin, Elisa, Ditonellapiaga-Margherita Carducci, Giusy Ferreri. Il libro, indirizzato non solo a chi volesse intraprendere questo mestiere ma anche a chi volesse capire come identificare il proprio stile, compare anche una carrellata-compendio di volti storici dello styling: da Polly Mellen, che era l’unica a poter chiamare per nome Richard Avedon, a Diana Vreeland, leggendaria direttrice di Vogue America e del Fashion Institute del MET, o ancora Grace Coddington, Carine Roitfeld, artefice di buona parte del successo di Tom Ford come peraltro Manuela Pavesi lo fu di Prada, o Rachel Zoe, la potentissima stylist degli Oscar, e Patricia Field, la firma di Sex&The City. Inedita la struttura del libro: una forma epistolare ibrida fra narrazione e mail.

 

 

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