L’illustrazione di copertina, opera di Jacqueline, di “One Special Summer”, il libro delle sorelle Bouvier (poi Kennedy e Onassis, Jacqueline, e Radziwill, Lee) ripubblicato da Rizzoli

Donne di maschere e piume

Fabiana Giacomotti

Una misura per il censo e la bellezza. Marella Agnelli da Capote, le sorelle Bouvier a un ballo veneziano

Il ritratto di Richard Avedon da cui nacque l’immaginario dei cigni, le milionarie della V strada come Babe Paley, Slim Keith e Lee Radziwill e come lei, Marella Agnelli che ne era l’ultima rappresentante, e l’unica aristocratica di nascita. Le piume di gallo sbiancate della maschera indossata al Black and White Ball di Truman Capote. Riprodotti solo loro, quasi esclusivamente, all’infinito, sugli account Instagram e Facebook di migliaia di persone che non l’avevano conosciuta, sulla stampa dove qualcuno è corso a dire che “anche se andava alle feste vestita di piume”, “donna Marella” era una donna discreta.

      

Sarà solo un’impressione e forse sarà stata influenzata dalla quantità di maschere che abbiamo visto sulle passerelle milanesi, tutte mirate a proteggere purezze e sentimenti preziosi da questi tempi aggressivi, ma a pochi giorni dalla scomparsa delle due ultime elegantissime del Novecento, Lee Radziwill e Marella Agnelli appunto, ci siamo fatti l’idea che la maschera e le piume siano tuttora il metro di misura del privilegio del censo e della bellezza invincibile, e insieme del divertimento più sfrenato, come ai tempi dei balli in maschera di Scribe che Giuseppe Verdi correva a mettere in musica, del ballo del Romanticismo del Conte Batthyány che definì lo status di Milano come capitale della mondanità del 1828 e a dispetto delle spie austriache disseminate ovunque, come i balli dei de Noailles o di Christian Dior che li adorava alla metà del Novecento e come quello di Carlos de Beistegui che diede nuovamente slancio a Venezia dopo la Seconda guerra mondiale e di cui stiamo per scrivere. Si tenne nel 1951 e di questo, come di tutti i bal masqué citati, esistono volumi a tiratura limitata che i collezionisti conservano con cura e i costumisti copiano senza ritegno.

      


Nel 1951 Carlos de Beistegui organizza una tra le più belle feste in costume del Novecento, e dà nuovo slancio a Venezia dopo la guerra


     

Di uno solo, si sa pochissimo. Porta la firma di Lee Radziwill e di sua sorella, Jacqueline Kennedy, entrambe ancora note come le “sorelle Bouvier”, e data proprio quel magico anno 1951. “Non siamo di certo le sorelle Brontë, ma Jackie e io ci siamo date qualche volta all’uso della penna, specialmente come regalo per nostra madre, a Natale o per un anniversario, perché preferiva qualcosa che avessimo scritto o disegnato noi piuttosto di una cosa comprata”.  Quando Lee Radziwill scrive queste righe di introduzione al libro che mi trovo fra le mani, ripubblicato nei primi anni Duemila da Rizzoli e ormai fuori catalogo, è il 1974, dunque lei e la sorella Jacqueline “sono”. Si prendono dichiaratamente “cura l’una dell’altra”, ma sono rivali in tutto: bellezza, ricchezza, successo mondano; sono in lizza perfino sulla lista delle donne più eleganti del mondo. Jackie è sposata ad Aristotile Onassis dopo averlo soffiato alla sorella che, pur sposata al principe Stanislav Radziwill, con l’armatore sì più cafone, ma anche più ricco del mondo, ha imbastito un flirt perché non si sa mai. Condannate all’eccellenza mondana e matrimoniale quasi oltre se stesse, come le sorelle Middleton di cui sono state, senza alcun dubbio, il modello.

   

“Abbiamo scritto questo quaderno insieme ventitré anni fa, dedicandolo a nostra madre e al nostro patrigno (Hugh D. Auchincloss, nda) per ringraziarli di averci permesso di venire in Europa per la prima volta da sole. Avevo diciassette anni, e sognavo un viaggio all’estero dopo il diploma. Volevo fare come Jackie, che si era presa un anno di pausa da Vassar per studiare alla Sorbonne a Parigi, vivendo con una famiglia francese. Mi scriveva delle lettere così belle, così ricche di dettagli sui posti che aveva visto e sul fascino dei paesi che aveva visitato che ero piena di curiosità… Ero affascinata dal Rinascimento italiano... Inoltre, non immaginavo nulla di più divertente di un viaggio con mia sorella; avevamo lo stesso senso del ridicolo e ci ammazzavamo dalle risate”.

          


Povera Lee, costretta a tenere sempre testa alla sorella brillante e versata per le arti con qualcosa di suo e di unico. Meglio darsi alle feste


      

Jackie è scomparsa nel 1994. Lee due settimane fa nella sua casa di New York. Il libro, scritto e illustrato a mano, è la riproduzione anastatica e commentata del diario che le due sorelle tennero del loro Grand Tour in Francia, Italia e Spagna nel 1951, il primo dei loro molti viaggi lungo la penisola e di cui nessuno dei partecipanti è più con noi a raccontarne i segreti (un paio di anni prima di morire, ci aveva fatto un pensiero Mario d’Urso che era stato il compagno d’avventure di Jackie nel famoso soggiorno amalfitano del 1962 per il quale John Kennedy le mandò il celeberrimo telegramma “more Caroline, less Agnelli”. Però, sensibile com’era, non voleva offendere la memoria di nessuno. Lasciò perdere). Ma se mai sapremo che cosa successe davvero fra Ravello e Capri in quella lunga estate del 1962, il diario tardo adolescenziale del 1951 è invece qui con noi ed è un’assoluta delizia, l’ultima testimonianza di un tempo incantato.

   

Le ragazze Bouvier si divisero i compiti: Jacqueline, che disegnava molto bene, con scuola e metodo e un’evidente inclinazione per Leonor Fini, si diede il compito di illustrare le loro avventure. Lee di scriverle. Pagine e pagine di descrizioni brillanti, acute, scritte senza ripensamenti e vergate in una calligrafia tonda e decisa. “Il 7 giugno, alle 9.45 della sera, dopo aver implorato, pestato i piedi e pianto per un anno, i passaporti numero 218793 e 545527 lasciarono il paese”. Le chiamavano le “whispering sisters”, un po’ per quel modo complice di appartarsi a chiacchierare alle feste, un po’ per l’abitudine di parlare a bassa voce, un vezzo che, come sa bene chi l’abbia mai sperimentato, costringe l’interlocutore ad avvicinarsi e che sugli uomini, sempre respinti dalle donne sguaiate, esercita un incantamento perenne. “Non ti preoccupare mamma! Non torneremo col mal di fegato. Mangeremo verdure e berremo solo acqua!!!”. Avevano le valigie piene di vestiti semplici, maglioni spessi, sandali piatti e calzoncini (lo stesso stile che le renderà famose pochi anni dopo), e le borsette stipate di tutti i documenti necessarissimi all’epoca: voucher, certificato di tutte le vaccinazioni fatte (questa non sappiamo se ci sembri un’usanza antica o moderna, in realtà), Travellers cheques, patente internazionale di guida, carta del Touring Club di Francia e d’Italia, lettere di presentazione, lettere di credito per tutte le sedi American Express d’Europa (ricordate Cate Blanchett ne “Il talento di mr Ripley”? uguale identico, epoca e stile sono gli stessi). Sul transatlantico della Cunard sul quale sono state imbarcate fanno faville. Passeggere di terza classe, usano classe e bellezza per cenare e ballare tutte le sere in prima: per loro l’“upgrade” non sarà mai un problema ma, anzi, una tecnica affinata negli anni e praticata con gioia.

       


Lee era “affascinata dal Rinascimento italiano… e non immaginavo nulla di più divertente di un viaggio con mia sorella”


       

Sbarcate sulla costa inglese, trovano ad aspettarle – Lee soprattutto che la vede per la prima volta – un’Europa in via di ricostruzione. Manca la benzina, circolano auto vecchie e scassate, ci sono un bel po’ di tipi loschi in giro, ma le due se la cavano alla grande e si divertono un mondo. Riescono anche a fare qualche soldo rivendendo il macinino su cui sono arrivate in Francia da Londra a un tipo che si spaccia per un baronetto inglese ma che a loro sembra “scappato dalla band di Benny Goodman”. L’arrivo a Venezia, dopo un soggiorno parigino fra amici di famiglia, “duchi e conti” che le trattano come ignote mascotte (“ehi, qui abbiamo due Bouvier”, scrive Lee, autoironica), e una vacanza in Spagna, è “assolutamente incantevole” e fonte di una sbilenca e divertentissima ispirazione poetica. Fra gondole e arlecchini immaginari, e ancor più immaginari amori a fini metrici (“avevo un amante chiamato Delmonico / mi rubò un bacio a Ca’ Rezzonico”) le due sorelle cercano subito qualcosa di interessante da fare: “Da quando siamo arrivate a Venezia, Jackie si è davvero interessata all’arte e, oltre ad andare per musei, si è trovata un maestro che le fa lezione tutti i giorni”. Per non essere da meno, Lee decide di cantare, aiutata dal concierge del Danieli, “signor Vicari, l’uomo più terrificante che abbia mai incontrato, con i capelli neri untuosi e un paio di baffi malandrini”. La maestra di canto prescelta, di cui Jackie esegue un buffo ritrattino sui due piedi, tonda tonda al pianoforte con la bocca spalancata mentre Lee in punta di piedi sembra strozzarsi con la propria stessa voce, non è proprio una sconosciuta, anzi è nota in tutto il mondo come interprete prediletta di Giacomo Puccini che l’ha voluta come prima esecutrice della “Rondine” e di “Suor Angelica”: “Signora Della Rizza”, scrive Lee, ovvero Gilda Della Rizza. In quel 1951 la soprano, che i giornali iniziano a definire come l’antesignana di un genere di canto in grande ascesa, anzi “la Callas prima della Callas” e guarda un po’ il caso, inizia ad avere una certa età; trovare nuove allieve non le dispiace. L’incontro con la biondina americana secca secca e la sorella che scarabocchia tutto il tempo su un album è piuttosto desolante: “Fummo introdotte nel salone che guardava sul Grand Canal e restammo lì a tremare, mentre la casa si scuoteva tutta e tuonava sotto (la spinta) della sua voce. Sul pianoforte c’era una fotografia di Toscanni (sic) con una lunga dedica, una di Puccini e due del re Umberto. Lei era ovunque, fotografata in tanti costumi… Alla fine mi chiese se sapessi cantare almeno una scala. Mi si ruppe la voce e ne uscì uno zigo come quello di un coniglio malato sull’ultima nota. Dopo di che, cercammo di guadagnare l’uscita il più in fretta possibile, e di evitare il signor Vicari per tutto il resto del nostro soggiorno al Danieli”.

   

Povera Lee, costretta a tener sempre testa alla sorella brillante e versata per le arti con qualcosa di suo e di unico. Meglio darsi alle feste. Il 3 settembre 1951, nei saloni affrescati dal Tiepolo di palazzo Labia che dieci anni dopo cederà alla Rai, il dissipatore maximo Carlos de Beistegui organizza una tra le più belle feste in costume del Novecento, Le Bal oriental. Guardare tutti i giorni Antonio e Cleopatra dipinti in sete e vezzo di perle nel salone d’onore gli ha suggerito il tema: all’epoca, divertirsi è un lavoro impegnativo. Gli ospiti, invitati sei mesi prima perché possano travestirsi con la sontuosità che l’eccentrico padrone di casa esige, approdano alla porta d’acqua del palazzo nelle due lance messe a disposizione dal sindaco, il democristianissimo Angelo Spanio, totalmente deliziato dalla presenza di Winston Churchill, di Orson Welles e dell’Aga Khan. I costumi sono disegnati da un giovanissimo Pierre Cardin e da Christian Dior, che ha vestito mezzo palazzo ma che per sé ha chiesto l’aiuto dell’amico Salvador Dalí. Se voleste cercare le riprese fra i filmati della “Settimana Incom” su YouTube, ne rimarrete incantati, e scoprirete che sono stati scaricati migliaia di volte: ritraggono un Settecento fantastico, profondamente influenzato dalla moda degli anni Cinquanta, esattamente come accadrà fra qualche anno, osservando i partecipanti al Carnevale che corrono ad abbigliarsi con i costumi di Arrigo a Palazzo Tiepolo Passi o i partecipanti del sontuoso Ballo del Doge che ogni anno Antonia Sautter organizza al Pisani Moretta (questo sarà l’ultimo anno nei saloni del palazzo, da poco venduto come di prammatica a un’imprenditrice cinese e chissà, forse l’imprenditrice potrebbe farsi mettere a disposizione il Teatro della Fenice, sostituendo in via definitiva l’ormai esausto Ballo della Cavalchina): un costume filologico non è mai tale, e anche se lo fosse, impresa del tutto impossibile, non sarebbe divertente, ma solo una maldestra imitazione. Riuscirono a “infilarsi” anche in quello sfoggio di fantasia e di ricchezza, le due “Bouvier soeurs”? Sul punto, il quaderno resta volutamente vago: parla di guanti bianchi, di costumi settecenteschi da “Isabella” e “Colombina”, di quadriglie e di walzer, di una festa favolosa “ballai il minuetto / bevvi champagne / cercando Lee / ma sempre a vuoto”.

    


Passeggere di terza classe, usano classe e bellezza per cenare e ballare tutte le sere in prima: l’“upgrade” non sarà mai un problema per loro


        

Una cosa è certa: a quel ballo parteciparono molti dei loro futuri amici ma, soprattutto, in veste professionale, Cecil Beaton, il fotografo che le aveva ritratte in quello stesso glorioso 1951, per il debutto di Lee. La fotografia, pubblicata su Vogue, data 1° marzo ed è celeberrima: Jacqueline seduta in lunghi guanti bianchi, Lee vestita di tulle. “In Venice we looked for a falling star”. A Venezia andò come deve andare quando piume e maschere svolgono il loro ruolo di “persone”, trasfigurando realtà e pensieri: “Cercammo una stella cadente, e quando l’alba toccò la punta della chiesa della Salute / sussurrammo nomi falsi e tornammo a casa”.

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