Una borsa di Chanel (foto LaPresse)

Chanel dice basta a coccodrilli e pitoni. Forse al prossimo passo difenderanno gli uomini

Fabiana Giacomotti

La griffe mette al bando le pelli esotiche dalle sue collezioni. Così la nuova coscienza mondiale a favore degli animali sta modificando la mappa e la liceità di certi consumi

Chanel mette al bando le pelli esotiche dalle sue collezioni e con questo, direbbe chi sa l’inglese, sets new standards forever. Se il secondo gruppo del lusso mondiale, 8,3 miliardi di euro di ricavi nel 2017, decide di far saltare il banco, tutti gli altri si accoderanno, potete esserne certi. Chi possiede una borsa Chanel in coccodrillo o un set da viaggio in galuchat, oggetti da 40-50 mila euro, se li tenga stretti, perché fra poco avranno quotazioni da capogiro; naturalmente, sempre che qualcuno voglia acquistarli e sfoggiarli. Più probabilmente, finiranno come la mantella di leopardo della nonna, irrigidita dalle conce parziali degli Anni Cinquanta e dalla polvere in fondo all’armadio, insieme con gli altri scheletri di famiglia.

 

“L’impossibilità di controllare l’intera filiera è stata una delle valutazioni che ci ha portati a questa scelta”, ha dichiarato l’esecutivo di Chanel, tuttora gestito dalla stessa, discretissima famiglia Wertheimer che ne acquistò la maggioranza da mademoiselle Coco nei primi Anni Trenta. La mossa è spiazzante, perché mette al tempo stesso a tacere le associazioni dei pellicciai e le concerie, che fino ad oggi avevano avuto l’argomento forte dei rettili con cui ribattere ai Gucci, agli Armani e ai Versace che, uno dopo l’altro, abbandonavano l’uso delle pellicce per sottoscrivere il protocollo Fur Free Alliance, senza però rinunciare all’indotto della vendita di accessori in coccodrillo, lucertola e pitone (nel gennaio del 2017, anzi, i principali marchi del gruppo Kering annunciarono di aver finanziato un allevamento di pitoni in Thailandia “rispettoso dell’ambiente e delle condizioni di vita degli animali”) e, come ovvio, la concorrenza.

 

Il gruppo dei Pinault che dichiarava di attendersi “un sostanzioso approvvigionamento di pitoni per il 2020” sembra all’improvviso rimasto indietro, già un poco meno di moda, meno eticamente responsabile. O, forse, le cose stanno diversamente. Mentre il presidente dell’International Fur Federation, Mark Oaten, cercava per tutta Europa interpretazioni plausibili alla scelta del gruppo Chanel, Fulvia Bacchi, il direttore generale di Unic, l’associazione delle concerie italiane, le più pregiate del mondo anche se forse non le più ricche, visto che il loro giro d’affari complessivo è pari a 5 miliardi di euro mentre la Cina inonda il globo di pelli dalla concia fin troppo dubbia, si era già fatta un’altra idea, e la comunicava a Il Foglio: “Vogliamo ipotizzare che questa sia un’ennesima mossa di marketing a fronte di un segmento che non rende più al gruppo quanto dovrebbe? La filiera è controllatissima in ogni passaggio, perlomeno qui in Italia. Fra i nostri associati, di cui una ventina è specializzata in animali esotici, le verifiche sulle condizioni di vita degli animali sono molto severe”.

 

Sul totale di Unic, il fatturato di queste aziende vale però meno dell’1 per cento, e la tendenza è al ribasso. Se questo, poi, alimenterà il mercato di frodo e il contrabbando dai paesi del sud est asiatico, si vedrà a breve. Ma la verità è che la nuova coscienza mondiale a favore degli animali (perfino il Guardian, in un suo commento, ha rivela un’inaspettata vis animalista) sta modificando la mappa e la liceità di certi consumi. Considerando gli agenti chimici a cui si espongono milioni di lavoratori fra Cina ed Etiopia per fabbricare i nostri tessuti e abiti low cost, e i salari da fame con cui vengono ricompensati, adesso ci attendiamo che, dopo visoni, coccodrilli e razze, adesso tocchi agli umani, muovere così tante griffe a tenerezza.

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