Il Foglio mobilità

Anche Israele ora ha scoperto la bicI: “Saremo l'Olanda del medio oriente”

Giovanni Battistuzzi

Per il vicesindaco di Tel Aviv Meital Lehavi "le due ruote creano benefici per l’intera comunità, abbassano i costi sanitari e migliorano la qualità della vita e dell’aria. Sono un volano per l’economia e per il turismo”

Iniziò tutto con una risata. Un ghignare così rumoroso che sembrò sancire la fine di qualsiasi progetto. Eppure era tutto abbastanza semplice: bastava tracciare delle linee di vernice ai lati della carreggiata e il più era fatto. Quel ridere poteva seppellire qualsiasi buona volontà, se non fosse che chi pedala sa che ciò che in molti ritengono impossibile, impossibile non è. È solo una questione di perseveranza.

 

Era il 1994 quando quattro ciclisti urbani di Tel Aviv presentarono al consiglio comunale della città israeliana un piano per promuovere la bicicletta come nuovo mezzo di trasporto. Il no fu categorico. Ridendo risposero loro: siamo mica nei Paesi Bassi. Assioma che prevedeva tre corollari: le bici sono cosa da terzo mondo; gli israeliani sono troppo abituati a guidare per poter anche soltanto prendere in considerazione la possibilità di perdere una corsia; Tel Aviv guarda al futuro, altro che pedalare: avremo una metropolitana con tre linee.

 

Per la metro toccherà aspettare ancora del tempo. Ventisei anni sono passati e non è stata ancora finita. In compenso però la risata di allora, si è trasformata prima in progetto, infine in realtà. A oggi in città ci sono centoquaranta chilometri tra corsie e piste ciclabili sugli ottocentocinquanta di rete viaria. Una rete ciclabile ormai insufficiente. E così a maggio il comune ha approvato un piano per la realizzazione di altri centosessanta chilometri entro il 2025. Nuovi tratti che metteranno in comunicazione quelli già esistenti per dare continuità all’infrastruttura. Il motivo è semplice: “La bicicletta crea benefici per l’intera comunità, abbassa i costi sanitari e migliora la qualità della vita e dell’aria della città. Inoltre è un volano per l’economia. Aumenta la capacità di spesa delle persone e porta turismo”, ha sintetizzato il vicesindaco Meital Lehavi.

   

Un cambiamento che non riguarda solo Tel Aviv, dove nel 2019 il 15 per cento degli spostamenti sono stati fatti pedalando e la bicicletta è usata regolarmente dal 20 per cento della popolazione. Ma che si sta espandendo. Dal nord del paese, Nahariya, sino al golfo di Aquaba, Eilat. Dalle coste del Mediterraneo, Haifa e Netanya, al lago di Tiberiade. E pure a Gerusalemme dove solo fino a un decennio fa l’utilizzo della bici era considerato impossibile “perché troppo collinare e troppo trafficata”, disse l’ex ministro dei Trasporti, Shaul Mofaz.

   

Colline e traffico non sono spariti, “eppure il numero di biciclette in città negli ultimi anni è aumentato continuamente. Tra il 2017 e il 2019 circa del 200 per cento”, spiega al Foglio mobilità Doc Orijlbrek, cicloattivista ed ex membro dell’Agenzia israeliana per la sicurezza stradale. “Un incremento percentuale che sembra enorme, ma il numero assoluto è ancora esiguo. Gerusalemme, rispetto a Tel Aviv e Haifa, è ancora molto indietro. Al momento esistono una cinquantina di chilometri di percorsi ciclabili. Che è poco, soprattutto perché oltre un terzo sono all'interno di parchi o aree verdi”.

 

L’amministrazione comunale di Gerusalemme nel 2018 aveva approvato un piano di incentivo alla ciclabilità. Poco o nulla è stato fatto sino a oggi. Il Covid ha però reso necessario un ripensamento. Al vaglio dell’amministrazione c’è un nuovo piano strategico che prevede un rafforzamento della rete viaria dedicata alle biciclette e portarla a 188 chilometri entro il 2025. A differenza di quello approvato due anni il nuovo progetto non prevede la creazione di piste esterne alla carreggiata, ma corsie ciclabili. “Se inizia a cambiare pure Gerusalemme la transizione verso un nuovo modo di muoversi sarà irreversibile”, dice Ben Klein, professore di storia in un liceo di Tel Aviv, cicloattivista e avventuriero a pedali. Klein in sella a una bicicletta ha compiuto due giri del mondo seguendo due itinerari diversi. “Solo vent’anni fa usare la bicicletta per muoversi sembrava utopia, oggi è realtà in molte città. E anche fuori città. È stato realizzato l’Israel bike trail, una ciclovia, quasi tutta sterrata, che unisce Hermon a Eilat: dall’estremo nord all’estremo sud. E funziona. Ci sono centri di assistenza, ristoranti, bar disseminati lungo l’itinerario. Quasi ventimila persone all’anno pedalano lì. Qualcuno lo fa tutto, la grande maggioranza solo qualche tratto. E c’è sempre più gente che ha scelto la bici come principale mezzo di trasporto”.

 

Klein ritiene che c’è stato “un fortunato cocktail di eventi” alla base della scoperta della bicicletta da parte degli israeliani. “Ho sentito dire da diversi politici che l’aumento dei ciclisti è stato causato dalla nuova coscienza ambientalista. La bici non la scegli perché ecologica, la scegli perché è meglio. A spingere la gente a pedalare non è stato il rispetto dell’ambiente, è stato il traffico, il comprendere che stare in coda è tempo perso. È stato il farsi i conti in tasca, il capire che quelli per la benzina sono soldi buttati. È stato un cambio di percezione: il ciclista non è più uno sfigato, ma è un figo. Conta più una bici pedalata da Bar Rafaeli che cento convegni. Sono state le infrastrutture. È stata, in parte, la tecnologia. Le ebike hanno messo in sella gente che non avrebbe mai preso una bici. E se vedi che pedalare non è solo fatica e sudore, la bici diventa un messaggio comprensibile a tutti. E poi c’è il ciclismo. Il Giro d’Italia del 2018 è stato un volano pazzesco. Per una settimana ovunque si parlava di ciclismo. E se parli di qualcosa poi ti sale la curiosità”.

   

  

È stato Sylvan Adams, il patron della Israel Start Up Nation, la squadra che ha tesserato Chris Froome per la prossima stagione, a volere e a impegnarsi per organizzare la partenza della corsa rosa a Gerusalemme. Una mossa inserita all’interno di un progetto per rendere Israele “l’Olanda del Medio oriente”. “Ci vuole ancora decenni, ma la strada intrapresa è quella giusta”, conclude Klein.

Di più su questi argomenti: