Lena Dunham (foto LaPresse)

Il cortocircuito del processo al maschio

Aspettiamo che Lena Dunham diventi la prima vittima femminile della rivolta delle donne

Lo spettacolare scivolone di Lena Dunham, regista, attrice e coscienza femminista di una generazione, manda in cortocircuito il vorace processo al genere maschile in corso, ed è a suo modo istruttivo ricostruire i passaggi per afferrarne la logica. I fatti, innanzitutto. Nella rete a strascico delle molestie è finito qualche giorno fa anche Murray Miller, uno degli scrittori di Girls e amico di lunga data della Dunham. L’attrice Aurora Perrineau lo ha accusato di averla stuprata nel 2012, quando lei aveva diciassette anni.

 

Dunham è stata travolta da un dilemma, e alla fine ha deciso di gettare a mare la massima sulle donne che mentono su quello che mangiano a pranzo, non sulla violenza sessuale, e ha difeso Miller assieme alla collega Jenni Konner: “Benché il nostro primo istinto sia di ascoltare la storia di ogni donna, la nostra conoscenza profonda della situazione di Murray ci convince che purtroppo questa sia una del tre per cento di accuse false che ogni anno vengono denunciate. Siamo con Murray e non abbiamo altro da dire sul caso”.

 

La devastante reazione alle parole di Dunham, che per proteggere un amico non crede alle accuse di una donna quando perfino sul New York Times scrivono che bisognava credere a Juanita Broaddrick, che ha accusato di stupro Bill Clinton, hanno convinto le due a trovare altro da dire. Un secondo comunicato ha cercato di correggere il tiro, ha spiegato che “sotto il patriarcato dire ‘ti credo’ è essenziale”, quasi a suggerire che la prima reazione è stata vergata sotto l’influsso di una interiorizzata condizione di subordinazione. E’ stato il patriarcato a comporre il messaggio, non lei. Vox, che com’era destino si è trasformato da freddo strumento di explanatory journalism in caldo avvocato di cause sociali, ha spiegato invece che la difesa dell’amico è perfettamente in linea con il tribalismo paraculo che da sempre lei esibisce. Il meglio però è arrivato quando Zinzi Clemmons, scrittrice afroamericana che collabora con la newsletter femminista di Dunham, ha abbandonato la sua collaborazione, e invitato tutte le altre donne a farlo, perché sostiene che Lena è razzista. Razzista del filone hipster e ipocrita, non di quello alt-right, ma il principio non cambia. Dai tempi del college, dice, frequenta persone razziste che pensano cose razziste ma si schermano dietro a sorrisi e battaglie di facciata. Se qualcuno li sorprende a dire “negro” dicono che era ironia millennial. Volete non credere a una ragazza nera che da quando è nata è bersagliata dalla questione razziale? 

 

Ricapitolando: nel grande processo al maschio, il simbolo del femminismo di nuova generazione s’imbroglia, mostra inavvertitamente i fili della propria ipocrisia, scivola sulle proprie contraddizioni e quando è a terra viene aggredita da una nuova fazione che lancia nuove accuse. Non solo è una rape apologist, difensore di molestatori, ma è anche colpevole di razzismo nella sua forma peggiore, quella altoborghese, snob e di sinistra. Questo talento che ha primeggiato in tutto nella sua breve e sfolgorante carriera aspira forse a diventare la prima vittima femminile della grande rivolta delle donne. Si attende la caduta definitiva leggendo Lena Dunham Apologizes, la parodia twitter delle sue scuse.

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