Il candidato generazionale funziona nella misura in cui non discute lo zeitgeist. Il caso Rubio

Marco Rubio ha usato la parola “generazione” e suoi derivati per sette volte durante l’annuncio ufficiale della candidatura alla Casa Bianca, incastonandola al centro di una delle frasi a effetto che ricorreranno nella campagna elettorale: “E’ arrivato il momento per la nostra generazione di metterci alla guida”. Non è sfuggito a nessuno il riferimento tanto a Jeb Bush quanto a Hillary Clinton, entrambi ultrassessantenni appartenenti alla generazione dei Boomers, che ha dato all’America gli ultimi tre presidenti, né l’espediente non particolarmente originale di buttarla sulla faida anagrafica, dove per qualche motivo – tutto da chiarire – i giovani sono i buoni e i vecchi i cattivi. Sarà forse che la gioventù contiene la freschezza dell’inizio, e l’esperienza del cominciare (o del ricominciare) esercita sempre un fascino misterioso, ma ci saranno altre occasioni per i carotaggi antropologici del caso. Qui la questione è innanzitutto politica.

 

Rubio vuole portare alla Casa Bianca la sua generazione, la Generazione X, e portare un millennial del resto sarebbe difficile, visto che bisogna avere almeno 35 anni per candidarsi alla presidenza (i demografi generosi dicono che i più vecchi fra i millennial hanno, appunto, 35 anni); ma allo stesso tempo vuole affrontare la questione generazionale in modo deliberatamente vago, facendo di ogni generazione un fascio, e chiaramente ambisce a pescare nel vasto mare dell’elettorato millennial, che ormai è imprescindibile, e nel quale nonna Hillary e l’ex governatore della Florida non si sentono perfettamente a loro agio. Mettiamoci in più la zavorra dinastica ed ecco che magicamente si apre lo scrigno elettorale per un 43enne ispanico con una bella storia da raccontare. Ma quale storia? Qui si apre il gran dilemma del candidato che la butta sull’elemento generazionale: adeguarsi ai tempora, seguire il vento, accarezzare il giovane elettore nel verso dello smartphone, oppure procedere per la propria strada, magari curando giusto un minimo il linguaggio comunicativo, adeguandolo alla contemporaneità? “You do you” grida la generazione che Rubio vuole affascinare e convincere, ma lui ha capito che l’esortazione a essere se stessi è condizionata quando si è seduto in un talk show televisivo della Cnn e Jake Tapper, animale di razza, lo ha messo all’angolo: tu dici che Hillary è la “candidata di ieri”, ma almeno su una questione il candidato di ieri sei tu, caro senatore giovane-ispanico-rottamatore, il matrimonio gay. Rubio ha sempre detto che il matrimonio è affare fra uomo e donna, ma il sondaggio estratto da Tapper spiega che il 61 per cento degli under trenta è a favore delle nozze omosessuali.

 

Hillary, che su questo si è “evoluta”, come Obama, guarda caso ha cambiato idea allo stesso ritmo con cui l’ha cambiata l’opinione pubblica. You do you, quindi, ma fino a un certo punto. Se lo “you” di Marco Rubio non piace alla maggioranza ecco che l’esortazione cambia: non fare te stesso, caro senatore retrogrado-travestito-da-rottamatore, fai quello che la generazione che vuoi conquistare vorrebbe che tu fossi. Qui si consuma il gran conflitto della generazione postideologica, che adora le specificità individuali e l’autenticità irripetibile dell’io ma soltanto se non contraddice lo zeitgeist. E Rubio lo zeitgeist lo sfida apertamente.

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