Dall'Oriente con furore

Massimo Morello

Anche in Birmania le tradizionali arti marziali stanno entrando nel circuito globale degli sport da combattimento. Ennesima metafora di un mondo che cambia ma dove è sempre più difficile, almeno in Occidente, comprendere il significato del cambiamento

“Da quando faccio l’allenatore ci sono stati cinque morti” mi disse U Kyaw Win del Myanma Traditional Boxing Club, una baracca adattata a palestra alla periferia di Yangon.

 

“Da quando fai l’allenatore?”.
“Dal tre anni”.

 

Se si calcola che gli incontri si svolgono una volta al mese, che non si disputano durante la stagione delle piogge, da maggio a ottobre, e che molti combattenti abbandonano per ferite dopo il primo incontro, si ha un’idea della violenza della lethwei, la boxe birmana.

 


Foto per gentile concessione di Andrea Pistolesi


 

La lethwei è molto simile alla più famosa muay thai, la boxe thailandese. Come questa risale a circa 2.300 anni fa, all’epoca delle migrazioni verso sud dei popoli provenienti dalla Cina meridionale. Costretti ad affrontare etnie ostili sul loro cammino, elaborarono una forma di combattimento che utilizzava come mezzo d’offesa e difesa ogni parte del corpo: i piedi, i denti, i pugni, le ginocchia, i gomiti, la testa. Di generazione in generazione la muay thai fu elaborata e modificata e oggi ha perduto le componenti estreme per enfatizzare gli aspetti sportivi, tanto da attrarre anche molti occidentali. E’ divenuta “global”.

 

La lethwei, invece, almeno sino a pochi anni fa, quando U Kyaw Win contava i suoi morti, ha mantenuto molte delle caratteristiche tribali, feroci, ben più violente. Si combatte a mani nude. Si può usare la testa. Sono ammessi quasi tutti i colpi, su quasi tutti i bersagli, a eccezione di occhi e testicoli. I combattimenti si concludono quasi sempre alla pari o per ko. Anche quelli che, secondo le regole occidentali o della muay thai, vedrebbero assegnata una vittoria ai punti. “Non importa se ne prendi tante. Quello che conta è il coraggio, la resistenza, la capacità di sopportare il dolore” mi disse U Kyaw Win. Al contrario “chi ha paura e sfugge al combattimento, dopo tre richiami è dichiarato sconfitto”. Il coraggio e il dolore rappresentano anche l’unica possibilità di guadagno. Non ci sono borse in palio, i pugili devono conquistarsi le offerte degli spettatori, che così premiano i migliori e incoraggiano l’uomo su cui hanno puntato. È per dimostrare indifferenza al dolore e coraggio che molti sfidano l’avversario avanzando a mani aperte, sollevando le braccia per offrirsi ai colpi.

  

La lethwei, quando incontrai U Kyaw Win, mi apparve una metafora della Birmania, un paese antico, nel bene e ancor più nel male, un brandello di pura Asia pre-globalizzazione. Oggi anche la lethwey sta trasformandosi. Si globalizza. Sia pure con difficoltà e con una forte opposizione. Il che continua a farla apparire come una metafora della Birmania. Anzi del Myanmar, nome ufficiale del paese che entra nella contemporaneità. 

 

 

Un tempo la maggior parte degli incontri si svolgeva durante le paya-pwe, le feste delle pagode, su un ring improvvisato di terra battuta. Oggi sono trasmessi da UFC Fight Pass, uno dei più importanti canali mondiali dedicato alle arti marziali. Il segreto di questo improvviso successo è in una contraddizione culturale. La lethwey è presentata come “the most brutal martial art in the world” ma al tempo stesso si cerca di adattarla alle regole degli altri sport da combattimento, limitando i rischi per i combattenti. Lo show richiede un piccolo, ipocrita sacrificio alla violenza. “Se la lethwei vuole entrare nel mainsteam deve essere accettabile all’audience di mainsteam” ha dichiarato Gerald Ng, il singaporeano che è l’artefice di questa trasformazione, Ceo della World Lethwei Championship (WLC), fondata per diffondere globalmente questo sport.
Per i custodi della tradizione, invece, la lethwei deve restare immutata, fedele alla sua forma di violenza senza compromessi. Ma quello che può apparire uno scontro di “filosofie”, anche in questo caso si rivela un conflitto di interessi. “Dobbiamo seguire le nostre regole. Solo così la lethwei potrà essere esportata con successo” ha dichiarato il promotore birmano del Myanmar Martial Arts Group.

 

In questa fase di transizione anche in Myanmar, com’è già accaduto in Thailandia e in molti altri santuari delle arti marziali, si sta affermando la Mixed Martial Arts (Mma), che consente l’utilizzo di tutte le tecniche delle arti marziali e degli sport da combattimento. Merito anche di Aung La N Sang, detto il "Burmese Python". Di etnia Kachin, educato negli Stati Uniti, nel 2017 ha conquistato il titolo mondiale pesi massimi dell’One Championship, la più importante organizzazione di Mma in Asia (con un’audience potenziale di 2.6 miliardi di persone in 140 paesi), diventando il primo campione mondiale birmano in sport a diffusione globale. Il 13 ottobre scorso, a Tokyo, Aung La ha difeso il suo titolo contro Brandon Vera (americano-filippino di origini italiane) che ha sconfitto per KO tecnico.

 

 

Alla fine dell’incontro la stessa Aung San Suu Kyi (che si trovava a Tokyo in visita ufficiale) è andata a congratularsi con lui. “Lei mi ispira a essere una persona migliore” ha twittato Aung La. E su di lui, ormai una superstar nazionale, sono tutti d’accordo: la Signora e i generali. Secondo il Comandante in Capo delle Forze Armate, “incarna l’indomabile spirito del Myanmar, l’orgoglio della nazione”.

 


 

In questo risveglio d’orgoglio nazionale riemerge dall’oblio quella che è considerata la madre delle arti marziali birmane: il thaing, il “combattimento totale”. Secondo la narrazione fu elaborata dagli ayee gyi, maestri delle discipline ascetiche buddhiste, più “maghi” che monaci. Dopo millenni, all’inizio del secolo scorso, il thaing era praticato dai combattenti del movimento anticolonialista e quindi divenne simbolo dei giovani nazionalisti, tanto da essere bandito dalla giunta militare nel 1988 in seguito alla loro rivolta. In seguito fu proprio la giunta ad appropriarsi del thaing per addestrare i membri del Tatmadaw, le forze armate, e della polizia. Nel 2011, mentre il Myanmar entrava nella contemporaneità e nel mercato globale grazie alle prime aperture politiche, il Shwe Taung Group, una delle più grandi corporation del paese fondò la Myanmar Thaing Federation per “vendere” la disciplina ai nuovi servizi di sicurezza privati e inserirla nel circuito internazionale degli incontri di arti marziali. Il rischio, secondo i puristi, è di snaturare completamente lo spirito del thaing, perdendo le sue caratteristiche in nome dello spettacolo. Il thaing, infatti, si esprime su movimenti simili a quelli di una danza che possono improvvisamente trasformarsi in colpi mortali.

 

Ne ho avuto una fugace impressione in eremo tra le montagne dello Shan meridionale. Dove ho incontrato Chit un vecchio saya, un Maestro di thaing.

 

 

Se ne stava sempre da solo, parlava pochissimo ma era sempre sorridente. Alla fine ha ceduto alle mie importune insistenze mi ha mostrato qualche tecnica di braccia. Le muoveva nell’aria avvolgendole a spirale con movimenti veloci e potenti. In quel vortice, per un attimo, scomparve anche la piaga che gli si allargava sul braccio destro, mangiandogli anche i segni di un tatuaggio magico.