A qualcuno piace bianco

Massimo Morello

Lo sbiancamento del pene, nuova moda asiatica, si presta a molti giochi di parole e ad ancor più analisi ed elucubrazioni socio-culturali. Cerchiamo di fare chiarezza.

«Su questa storia dello sbiancamento del pene voglio vederci chiaro» mi scrive un’amica, che si dimostra anche spiritosa oltre che intelligente.

 

La storia è ormai nota. Anzi virale. E’ una di quelle che ormai compongono il nuovo universo mediatico disseminato tanto di fake news, quanto di notizie vere ma che un tempo ormai remoto apparivano in rubriche come “strano ma vero” o “la realtà romanzesca”. I paesi “esotici”, l’Asia in particolare, sono fonte inesauribile di queste notizie che alla fine sono divenute la versione 4.0 delle Mille e una notte, rappresentazioni di un nuovo orientalismo pittoresco, misterioso, strano, spesso con forti connotazioni sessuali. E, soprattutto, inesplicabile e inesplicato.

 

Una delle ultime notizie ha origine in Thailandia e riguarda, per l’appunto, lo sbiancamento del pene. E’ vera. Il Lelux Hospital di Bangkok, una clinica privata aperta nel 2002 in un complesso in stile thai-coloniale, nota (come molte altre in Thailandia) per i suoi interventi di chirurgia estetica e per lo schiarimento della pelle, ha lanciato un nuovo trattamento: lo sbiancamento del pene.

 

 

«Ce lo stanno chiedendo in molti. Abbiamo circa cento clienti il mese, tre ogni giorno» ha dichiarato Bunthita Wattanasiri, manager dello Skin and Laser department del Lelux Hospital. Il trattamento, eseguito con un piccolo laser, comprende cinque sedute e costa circa 530 euro. “Soldi buttati via” secondo il dottor Thongchai Keeratihuttayakorn del ministero della Salute thailandese, che ha anche messo in guardia da possibili “conseguenze negative”.

 

 

Questa la notizia. Fare chiarezza è più complicato. Il tema è stato oggetto di dibattito antropologico, sociologico, storico, culturale degno di miglior causa. E’ addirittura divenuto pretesto di riflessioni sull’“imperialismo sessuale” dell’Occidente, di quanto “si sia radicata nella regione la corrispondenza tra potere e fallo bianco dopo secoli di colonialismo e neo-colonialismo”. A tal proposito è stata portata come prova a carico il tweet di Donald Trump in cui il presidente americano scriveva che il suo pulsante nucleare era “molto più grosso e potente” di quello di Kim Jong-un (tutto ciò in un articolo, per altro molto interessante, di Debasish Roy Chowdhury, vice direttore del “This Week in Asia” di Hong Kong).

 

La spiegazione più diffusa è quella secondo cui gli asiatici sono ossessionati dalla pelle scura, segno di appartenenza alle classi povere, costrette al lavoro nei campi. Ossessione reale, in società fortemente gerarchiche e classiste, dove la pelle chiara, come la ricchezza, è il segno tangibile di un buon karma. Lo dimostra il consumo compulsivo di prodotti per schiarire la pelle, che in Thailandia sono spesso pubblicizzati inserendo la parola-chiave  “pen”, costoso, ormai utilizzato per definire ciò che è elegante, glamour. Così come, le icone della cultura popolare thai sono sempre più spesso leuk khrung, mezzosangue. Incarnati da Maria Poonlertlarp Ehren (padre svedese, madre thai), arrivata quinta all’ultimo concorso di Miss Universo.

 

In India il mito della pelle chiara è ancora più radicato, tanto che nella maggior parte dei casi le stesse divinità sono così rappresentate, specie nei film di Bollywood.

 

 

Ma nemmeno questa spiegazione appare del tutto convincente. Negli ultimi tempi, e sempre con maggior forza, si va fa affermando la riscoperta dei “valori asiatici” - quelli che in Thailandia compongono la kwampethai, la thailandesità - che considerano l’imitazione dei modelli occidentali (che siano essi la democrazia o il colore della pelle) come il retaggio di una forma di sottomissione. Non è un caso che in India sia stato realizzato Dark is Divine, un progetto fotografico-culturale in cui le divinità del pantheon induista sono rappresentate con la pelle scura.

 

 

Insomma lo “sbiancamento”, sembra destinato a divenire “politicamente scorretto”. Inoltre, per quanto questo modello estetico possa essere ancora radicato, non sembra giustificare lo sbiancamento di parti intime. Tanto più in Asia, dove il comune senso del pudore è più forte di quanto non si possa immaginare (e come ben sa chiunque abbia frequentato una palestra in questa parte di modo).

 

Lo sbiancamento del pene, quindi, sembrerebbe destinato a restare uno dei tanti misteri d’Oriente, spiegabile solo dai nuovi guru dell’esoterismo ideologico contemporaneo.

 

Ma forse una spiegazione c’è. Non ha connotazioni razziali o culturali, ma semplicemente estetiche. E’ quella che ha dato Popol Tansakul, marketing manager della Lelux, che si riferisce ai trattamenti di sbiancamento (o meglio: eliminazione degli inestetismi) del pene e dell’ano: «Sono molto popolari tra i gay e i travestiti, che si prendono molta cura delle loro parti intime. Vogliono apparire belli dappertutto». E infatti la maggior parte dei clienti della clinica sono membri (ci si perdoni l’involontario gioco di parole) della comunità Lgbt.

 

Chiaro?