Il Foglio Weekend

I delitti del Tax credit: storia di un omicidio e di una città incredibile

Michele Masneri

Turisti, carabinieri, zainetti rubati. Roma d’estate si svuota, e a volte scoppia il delitto. I precedenti di Beau Solomon e di Mario Cerciello Rega. E l'eterno fascino di Mr. Ripley 

“I delitti del Tax credit” potrebbe benissimo diventare un libro giallo,  romance o anche serie televisiva, magari ambientata nella solita Roma assolata e disperata che ogni estate ci si ripropone, ogni anno in anticipo, grazie al fattore climatico. Ma questa volta il detective non sarà un poliziotto o commissario di pubblica sicurezza bensì un inviato del ministero della Cultura che cerca di recuperare i fondi del Tax credit, in questo caso andati a un finto film di un finto regista con una finta identità che arriva a Roma e con una profonda comprensione del luogo capisce che l’unica possibilità di startup che ci possa essere in questo paese è statale. 

 
Preveniamo l’obiezione, sì, anche i giornali sono finanziati coi soldi pubblici, come tutto in Italia (festival e mostre e musei e teatri e infatti ci si chiede sempre come mai si paghino così poche tasse per tenere in piedi tutto ciò). Ma non divaghiamo: stiamo parlando, ovviamente, di Francis Kaufmann, alias Rexal Ford (nome da pura commedia all’italiana) alias Matteo Capozzi, insomma l’americano quarantaseienne attualmente agli arresti in Grecia, e che a Roma ha forse ucciso la compagna forse siberiana e forse la sua bambina, ritrovate il 14 giugno a Villa Pamphilj, uno sterminato parco pubblico romano. Il caso, orrendo, era già surreale di suo, ma adesso con la scoperta che il presunto assassino  avesse presentato un progetto di finto film intitolato “Stelle della notte”, e beneficiato del famigerato Tax credit, cioè il superbonus cinema che il governo Meloni ha tolto, e per cui la sinistra è furibonda, è fantastico. 

 
Ma andiamo con ordine. Se fossimo in un pitch di una serie, finanziata con soldi pubblici ovviamente, ci vorrebbe prima di tutto “l’arena”, cioè il contesto, eccolo. Roma, estate. La città diventa un’altra cosa, si allunga, si allarga, sembra dar spazio a una dimensione ancora più mortifera. Il delitto estivo romano è una sottocategoria precisa del delitto italiano. Nel delitto estivo romano ci sono dei luoghi precisi, sempre quelli: sono soprattutto Campo de’ Fiori e Trastevere, già affollati di turistacci e di romani che ciondolano pure nel resto dell’anno, ma d’estate diventano epicentro dell’ubriacatura violenta, della ricerca della droga sgangherata e amatoriale, della rissa che finisce male, tra i bar coi tavolini fuori e il buttadentro e il proseccaccio e magari la partita di rugby sul maxischermo. 

 
Sotto scorre il fiume, che può non essere l’amabile Gange giallo su cui scattarsi selfie a Ponte Sisto. Ogni tanto infatti qualcuno finisce di sotto, risucchiato dalle  acque come accadde il 30 giugno del 2016 con il caso di Beau Solomon; anche lui americano, però questa volta non assassino ma assassinato, e gettato appunto nel Tevere. Era uno studente della University of Wisconsin, arrivato a Roma da meno di 48 ore per un programma di studi alla John Cabot, l’università privata un po’ balneare a Trastevere, per ragazzi fortunati in vena di turismo. Una sera sparisce dopo aver lasciato un pub a Campo de’ Fiori. Lo trovano annegato nel fiume. La versione ufficiale? “Rapina finita male”.  

 
Ma non è l’unico caso. A volte l’americano è l’assassino, o sono due, come nel caso del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ammazzato nel 2019 da due ragazzi di San Francisco in vacanza. In questi delitti infatti l’americano non manca mai; può essere vittima sacrificale, o assassino preterintenzionale: un turista spaesato, uno che non ha capito bene dove si trova, o l’ha capito benissimo. Il centro del mondo però diventa il centro storico romano: perché poi anche Rexal Ford, alias Kaufmann, alias Capozzi, è stato varie volte fermato da quelle parti. Spesso alterato, a volte con la bambina e con la compagna, questa senza documenti. In un caso sanguinante, con un taglio in testa. Dice: ma non li hanno trattenuti. Ma la polizia è abituata a tutto da quelle parti; e nella lunga notte dell’overtourism tutti sono uguali: il turista ciabattone, lo studente dell’università americana, l’Erasmus, il  romano col male di vivere  diventano una persona sola, e vanno incontro alla morte. 

 

Turisti, carabinieri, zainetti rubati. Roma d’estate si svuota, i residenti evaporano verso le seconde case, per chi ancora ce l’ha; gli studenti universitari del sud tornano “a” mare, i ristoratori scappano al Circeo. La città diventa un grande teatro dove gli attori principali e abituali – politici, gente dello spettacolo, calciatori, giornalisti – sono altrove, a Capalbio o a Ponza. E sul palco rimangono i personaggi secondari, i sostituti, che non sanno bene maneggiare la città: turisti, agenti, spacciatori da due soldi, ragazzi troppo ubriachi, e la città che già non è proprio campionessa di civismo e d’attenzione, osserva tutto senza muovere un ciglio. Non giudica. Lascia fare.  

 

Tutto questo mentre cambiano i sindaci, arrivano i Pnrr, aprono gli alberghi a diciotto stelle per i miliardari, ma la Roma estiva è sempre quella dei film di Verdone, spelacchiata, anche cattiva. Anche con un certo fascino libertario però. E attrae americani in infradito, con immaginario aggiornato ai tempi e alle possibilità. Il Colosseo, la Fontana di Trevi (che campeggia anche nel finto “pitch” del film di Kaufmann, il documento con cui ha ottenuto i denari pubblici); la finta carbonara, oggi sostituita dalle focaccerie celebri su TikTok; il vespino da “Vacanze romane” sostituito dal monopattino elettrico, anche in due o tre, anche contromano, anche a 60 all’ora come un tipo l’altro giorno sul Grande Raccordo Anulare (ma l’abolizione dei monopattini non era un vanto del nuovo codice della strada di Salvini? A Roma ci vanno tutti, boh). Roma d’estate perde comunque ogni limite, morale, temporale e spaziale. A notte fonda ci si perde, come il tizio  in giacca e cravatta che l’altra notte ha sceso metà della scalinata di piazza di Spagna a bordo della sua Mercedes. Non un pazzo ubriaco o drogato, o se lo era non lo dimostrava affatto, anzi un signore elegante che piano piano, come se fosse possibile, e perché no plausibile, puntava ad arrivare dal Pincio alla piazza, anche senza rovinare l’auto. Poi l’auto è stata rimossa con le gru dei Vigili del Fuoco. 

 
Ma non sono dei pazzi isolati, la scesa di Trinità dei Monti è un classico estivo; Roma ispira la pazzia anche proprio nel trasporto: non si esce mai dalla scena dell’ingorgo in “Roma” di Fellini, e l’angolo via Sistina-Pincio, dove il signore in Mercedes si è buttato sulla scalinata, sembra il set di un eterno film, forse fatto col Tax credit. In questi giorni è un delirio di sidecar, monopattini, e adesso il nuovo mezzo che infesta la città, la golf car, con sopra sei turisti che (seduti dietro, in senso contrario al guidatore) ti fissano, e magari ti fanno pure una fotografia, come se fossero in un safari e tu l’elefante o la giraffa. Spesso nel delirio estivo romano non succede niente, ma a volte ci scappa il morto. E il delitto estivo romano è en plein air, non è di villa (come quelli dell’Olgiata) o di palazzo (come via Poma), è un delitto prettamente Ztl, è delitto d’overtourism ma nasce prima che questa definizione venisse inventata. Non manca mai appunto l’americano, con nomi improbabili come Beau Solomon, o in questo caso Rexal Ford, che lo trasformano in un sottogenere, il poliziottesco tiberino. Gli altri ingredienti del delitto romano estivo sono poi il passaggio a “Chi l’ha visto?”, come nel caso Kaufmann, dove la trasmissione Rai è riuscita a individuare il volto dell’uomo e la  mamma della ragazza russa; ma anche nel caso Solomon e Cerciello Rega (che finì anche a “Un giorno in pretura”); e poi lunghi e confusi strascichi giudiziari: il “punkabbestia” Massimo Galioto, considerato l’assassino di Solomon, venne assolto dall’accusa di averlo gettato nel fiume, e però tornò poi in carcere per la morte di un clochard, tale Emanuel Petrut Stoica, ucciso a calci, pugni e morsi di cane sulla banchina del Tevere, poco distante da dove Galioto viveva nella sua tenda. 

 

Caso complesso anche quello del vicebrigadiere ucciso nel 2019. La Corte d’assise d’appello di Roma ha condannato a 15 anni e due mesi Elder Finnegan Lee e a 11 anni e quattro mesi Gabriel Natale Hjorth, i due studenti statunitensi accusati dell’omicidio di Mario Cerciello Rega. La faccia del carabiniere fece il giro di tv, giornali, social, e una sua effigie campeggia ancor oggi in una traversa di Campo de’ Fiori in una specie di murales che mette in guardia dalla notte romana. Lì in quel caso gli americani non erano le vittime ma gli assassini. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 Mario Cerciello era in servizio con il collega Andrea Varriale a poche centinaia di metri dall’albergo dove alloggiavano i due diciannovenni in vacanza a Roma. Anche lì, storie misteriose, complicate: pare che con l’iniziale intenzione di comprare cocaina, i due avessero derubato il “mediatore” che li aveva introdotti al pusher, per poi chiedergli un riscatto per la restituzione della borsa. Il mediatore, Sergio Brugiatelli, chiama i carabinieri, e da qui scatta l’operazione. Cerciello e il collega Varriale accorrono. Vanno però in borghese, gli americani non capiscono, e quando i militari chiedono i documenti, scatta la reazione violenta. I due americani vengono arrestati nell’hotel dove alloggiavano poche ore dopo.

 

L’immaginario di questi delitti richiama celebri pellicole della commedia all’italiana, “I nuovi mostri”, “Brutti sporchi e cattivi”, i poliziotteschi e gli ispettori à la Monnezza, più naturalmente i vari romanzi criminali, ma riporta naturalmente anche all’altro grande archetipo, quello dell’Americano Giovane in Italia. L’americano che fa il suo Grand tour e finisce immancabilmente a Roma, e qui diventa vittima o carnefice, mai una via di mezzo. Pensiamo alle mille versioni del “Talento di Mr. Ripley”, il giallo di Patricia Highsmith uscito 70 anni fa, nel 1955, storia di un ricco studente sfaccendato che si trasferisce in Italia, e di un altro povero americano che lo ammazza e si sostituisce a lui. A Roma. Dal romanzo, per dire quanto l’idea sia attraente e non invecchi mai, sono stati tratti un’infinità di film e serie, tra cui quello di Liliana Cavani, ma il più famoso è quello di Anthony Minghella con Matt Damon e Jude Law, e per ultima la serie Netflix in bianco e nero con Andrew Scott dell’anno scorso.   

 

Che forse avrà usufruito del Tax credit. Perché poi ogni delitto ha trovato degli agganci con l’epoca e “segni” di l’attualità, ma questo di Villa Pamphilj sembra avere una speciale correlazione, uno speciale legame col presente. Neanche l’AI più equipaggiata della Silicon Valley sarebbe riuscita a trovare un killer infatti che “applica” come si dice in ital-english, cioè fa richiesta, per i famosi fondi pubblici per il cinema che permettono di avere sgravi di imposte per chi mette dei soldi su una produzione cinematografica. In pratica hai uno sconto fiscale, che puoi tenere o girare a una banca. Il giornale Open ha potuto verificare con il ministero della Cultura che Kaufmann ne fece richiesta nel 2021 e che gli fu effettivamente concessa un’agevolazione pari a 836 mila euro per il film “Stelle della notte”, di cui si era presentato come produttore. Falsi i documenti, falsa l’identità del regista, falso il film che non si fece mai. Veri solo i soldi. Il finto film era  co-prodotto con una società maltese (Tintagel Films LLC) e presentato tramite l’italiana Coevolutions. Siccome questo Kaufmann sarà un assassino ma evidentemente ha dei tratti geniali, si inventa anche dei nomi di collaboratori inesistenti (autori delle musiche ecc.).

 

E questa è una clamorosa commedia nella commedia o se vogliamo tragedia nella tragedia. Il Tax credit è infatti l’ultimo campo di battaglia della lotta culturale italiana. Certo, è il meccanismo per cui a un certo punto in ogni angolo d’Italia (e specialmente di Roma) inciampavi in Tom Cruise, a cui come nel Marziano di Flaiano, a una certa intimavi: a Tom, scansate! Hollywood si era trasferita, ancora una volta, infatti, sul Tevere. Non uno ma ben due Mission: Impossible girati tra Venezia e Roma, poi i film di 007 Spectre e No Time to Die, a Matera; e La sirenetta della Disney in Sardegna, e Indiana Jones e il quadrante del destino in Sicilia, e poi Emily In Paris che  grazie al Tax credit diventa ufficiosamente Emily in Rome – (o Emily in Credit); e il White Lotus seconda stagione che ha reso immortale la battuta “these gays are going to kill me!” detta dalla sublime Jennifer Coolidge, che ha reso Taormina ancora più capitale del turismo gay insieme a Crema. Che poi, va bene Emily in Paris girata a Roma, va bene 007 a Matera, ma adesso che Crema diventi tappa del turismo internazionale è troppo! Eppure è così, grazie al successo del film di Luca Guadagnino “Chiamami col tuo nome” di qualche anno fa.

 

Perché grazie al meccanismo del Tax credit l’Italia era tornata a essere un centro importante del cinema. Guadagnino poi è stato pure lui preso di mira dai giornali di destra, che dipingono il Tax credit come una specie di oppioide della sinistra fighetta, l’ossicodone che tiene in piedi i circoletti di Capalbio, la tovaglia Lisa Corti su cui si apparecchia l’egemonia culturale. Quindi tantissimi ora stanno brindando al caso Kaufmann, non si poteva trovare miglior testimonial contro l’amichettismo."La tragedia di Villa Pamphilj ha portato alla luce quanto da noi denunciato da tempo e che ha determinato importanti modifiche del tax credit” ha detto ieri la sottosegretaria con delega al Cinema Lucia Borgonzoni. E perfino l’ex ministro Sangiuliano  dalla ritirata francese si è espresso: “I fatti mi stanno dando ragione! Ho cambiato il sistema trovando gigantesche resistenze da parte di una lobby tanto potente quanto corrotta che me l’ha fatta pagare". Il talento di Mrs. Boccia. Senza spiegare che comunque il fantomatico film di Kaufmann aveva approfittato anche dell’ammorbidimento della normativa a causa del Covid, per cui molte procedure erano state alleggerite per far ripartire il cinema.    
  

Ma niente. “E allora il Tax credit” è il nuovo “e allora le foibe?”,  “parlateci del Tax credit” è il nuovo “parlateci di Bibbiano”. L’idea che il governo finanziasse allegramente tutti i cineasti “de sinistra” mentre il fiero popolo di cinéphile di destra tira la cadrega nelle spelonche del Colle Oppio è irresistibile. Ma più che Guadagnino, nella lotta al Tax credit il bersaglio è  spesso Ginevra Elkann, la Soros del Tax credit, bersaglio perfetto, cosmopolita, pure cognome ebreo! Il protocollo dei savi del Tax credit! A Libero han tenuto la contabilità, 2.828.044,32 euro tra crediti d’imposta e contributi a fondo perduto, destinati a due pellicole della regista impelagata pure nella complessa vicenda giudiziaria di famiglia: “Magari” e “Te l’avevo detto” che poi non hanno incassato quanto erogato dallo stato (il che ricalca i vecchi calcoli-tormentoni del passato: ma la Fiat, avrà più dato o più ricevuto dall’Italia? Modesta proposta: dia a Giuli un Balthus, e la chiudiamo qui).

  

Ma a parte gli scherzi, è veramente un dramma e un danno e un problema posto male, perché al netto dei film che magari non incassano, il Tax credit è comunque un gioco a somma positiva per tutti: perché il valore da tenere in considerazione non è lo sbigliettamento, ma i soldi che vengono messi in circolo, come ha spiegato lo stesso Guadagnino qualche settimana fa alla Festa del Foglio: pensate a maestranze, alberghi, autisti, figuranti, elettricisti… Paradossalmente i film col Tax credit potrebbero anche non vendere mai un biglietto e sarebbe comunque un vantaggio per l’economia. Cassa depositi e prestiti, non il collettivo del cinema Beltrade, ha calcolato e certificato un moltiplicatore keynesiano del Tax credit: ogni euro speso ne frutta 3 alla collettività.

 
Intanto rimane comunque il mistero di Mr. Kaufmann, sicuramente è una storia di cui sentiremo ancora parlare o che diventerà di per sé un film. La storia, vera, fa impressione. Un misto tra vecchi cliché e nuove modernità. Il Talento di Mr. Kaufmann, arrivato a Roma da Malta, dove risiedeva, in barca a vela; che si fa chiamare Rexal Ford, nome di un regista che non si capisce se esista veramente o no; che si dice amico dei vip, che alloggia solo in B&b per non farsi registrare; che nonostante i cinque arresti precedenti in America gira liberamente per l’Europa; che abita da clochard in una tenda nel parco di villa Pamphilj, però con carte di credito attive e sonanti. Che forse è una spia. E la moglie o compagna, secondo alcuni hacker ed esperta di criptovalute, che scriveva alla madre: “Con Rexal non va tanto bene”. Un po’ Mark Caltagirone un po’   “Inventing Anna” all’amatriciana, che in America truffa le aziende e da noi  lo Stato, perché c’è solo quello. 

 
Insomma il film va prodotto, con soldi pubblici oppure privati, è chiaro. Potrebbe farlo la destra, un grande kolossal contro l’amichettismo (doppiato da Pino Insegno). Ma si devono sbrigare, pare che Favino si stia già esercitando con l’accento maltese. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).