Il Foglio del weekend

Un altro talk show è possibile

Michele Masneri

Contro il logorio della televisione moderna, tra risse e urlatori, l’antidoto è “Match”. Nel ruolo di giudice supremo lo scrittore più chic d’Italia, Alberto Arbasino. E poi due ospiti a duello, tra mostri sacri e avanguardia

Una delle vie di fuga più efficaci per perdersi in un passato di eleganze televisive, e sfuggire a Mauro Corona che coroneggia dalla Berlinguer, a Bassetti che bassetteggia su La 7, ai virologi interrogati sugli scenari quirinalizi, ai quirinalisti che pontificano sulla variante Omicron, insomma all’inferno quotidiano del talk televisivo odierno, è tuffarsi su RaiPlay e “bingiare” “Match”, il talk che non lo era (o l’unico che lo fosse veramente).

 

Fu una specie di meteora o apparizione, condotta dallo scrittore più chic d’Italia, Alberto Arbasino, a cavallo del fatale ’77. Su Rai 2 anzi, come ricorda Aldo Grasso col Foglio, “su quella che si chiamava ancora Rete 2”. Dove lo stesso anno andava in onda la prima puntata d “Portobello”: e nasceva il Tg2 condotto da Piero Angela e diretto da Andrea Barbato. La Rai 2, anzi Rete 2, era “un luogo di sperimentazione, specialmente in quella che si chiamava la seconda serata, dalle dieci e mezza in poi, e che oggi non c’è più. C’era il teatro di Dario Fo, c’era quella cosa molto innovativa che era ‘Le uova fatali’, uno sceneggiato un po’ fantascienza e un po’ horror tratto da Bulgakov e fatto da Gregoretti”. 

In questo contesto arriva “Match”: che riflette anche i tempi, il ’77, i vari ribollimenti, la coda lunga del ’68 coi suoi linguaggi, i “nella misura in cui”, frequenti come i revers giganti delle giacche, mentre stanno per arrivare gli Ottanta (ma prima, l’orrore del caso Moro). Panche blu, cuscini arancio, due contendenti seduti su poltroncine d’ufficio un po’ “Mad Men”. Tutti fumano allegramente per i quaranta minuti della puntata. Parte un jingle, una trombetta come di carosello, e in carattere helvetica: “Match - domande incrociate tra protagonisti”. Arbasino, capello cotonato, completo di tweed o velluto, cravattone e stivaletto di pelle dal notevole tacchetto, guarda in camera e va. Curato da un autore “top” come Arnaldo Bagnasco, “un genovese alla corte di Minoli voglioso di cultura”, ricorda ancora Grasso, “l’idea del programma era semplice ma arguta: mettere a confronto due personalità della cultura con idee opposte o divergenti. Ne scaturirono confronti memorabili, come per esempio quelli tra Indro Montanelli e Giorgio Bocca, Mario Monicelli e Nanni Moretti, Susanna Agnelli e Lidia Ravera, Giorgio Albertazzi e Memè Perlini. Un ospite interrogava l’altro”.

 

 

Arbasino prega gli ospiti di metterci “molta polemica”. Non sempre ci si riesce. Montanelli nei suoi diari scrive: “22 novembre 1977. Confronto fra me e Bocca a Match, la rubrica televisiva di Arbasino. Cerchiamo invano qualche motivo di litigio, e Arbasino si arrabbia. Bocca non trova altro da rimproverarmi che il solito articolo contro la Cederna”. Colpisce del format la civiltà generale del dibattito, l’assenza di cialtroneria. Ma anche di pause pubblicitarie, di collegamenti, di rvm. È un teatro da camera. Secondo Grasso “la novità saliente del programma è costituita dal tipo di articolazione del duello vero e proprio: i due antagonisti avranno ciascuno quindici minuti a disposizione per intervistarsi l’un l’altro, ed è perciò alle reciproche domande e risposte che è affidato l’esito in vivacità e interesse di ogni match”.

 

In realtà poi il minutaggio, nonostante un “gong” che interviene fuori scena, salta quasi sempre, e le domande le fanno anche quelli del pubblico: che non sono figuranti bensì supporter, schierati dietro il loro supportato. Così per esempio Memè Perlini, regista innovativo e sfortunato, dietro di sé ha quello che sarà il compagno di una vita, lo sceneggiatore e regista Antonello Aglioti, e un nugolo di teatranti e critici determinatissimi. “Interessante che i supporter, il pubblico, rappresentasse un mondo culturale riconosciuto”, ricorda Grasso. Oggi si direbbe: ci mettono la faccia. Perlini, amico d’Arbasino (ci si ricorda un pranzo molto mesto, nel ’17, quando Alberto e il compagno Stefano arrivarono dal funerale “di Memè”), ha l’onore della prima puntata, e in quanto “nuovo” siede di fronte al grand’attore Giorgio Albertazzi. (“Tu sei un capocomico, sei un attore mediocre, non sei un mattatore, sei un televisivo da carosello” è l’attacco del giovane al vecchio). Albertazzi, camicia aperta sul petto, si difende come può. Aglioti: “Fai parte di un teatro mafioso e corporativo”, e giù tutto un discorso su teatro tradizionale e teatro d’avanguardia che è il tema della puntata.  

 

In generale in tutte le puntate ai vecchi si imputa sempre, apertamente o meno, successo e corruttela. I vecchi capiscono subito che quegli altri vogliono prendere il loro posto e combattono con mesta convinzione, consapevoli che un po’ il loro tempo è finito (chi più, chi meno). È il teatro dello scontro generazionale. Prima, Arbasino fa una sua introduzione, che, essendo Arbasino, è una lecture colta e divertita (e anche un po’ surreale) dei temi che si tratteranno. Dunque in questa puntata cita  “il birignao dei vecchi attori, quelli che dicevano camiciue e ciliegiue”. Arbasino fa l’unico programma che potrebbe fare, pronuncia appunto parole come “birignao” e “kitsch”, e se ne sta lì, terzo, rispetto allo scontro tra Tradizione e Avanguardia. Cioè quello che fa l’Arbasino cronista e l’Arbasino critico culturale e pure romanziere, tra avvento dei “nuovi” e messa in discussione dei “vecchi”, e lui terza camera dello Stato. “Lui non fa niente per piacere e non vuole essere protagonista. Ci sono lunghi momenti in cui sta lì e ascolta. Una cosa inconcepibile oggi ma anche allora. I suoi silenzi sono interessantissimi”, ancora Grasso. È interessante il momento storico, appunto, il ’77 coi movimenti e poi il delitto Moro, che porterà Arbasino a scrivere il saggio “In questo stato” l’anno successivo.  È come se “Match” fosse anche un modo per ascoltare la società e cercare una impossibile mediazione, una ricomposizione delle fratture che stanno scoppiando nella società.

 

A esser più frivoli (Paolo Milano citava Proust per l’amico Alberto: “la frivolezza è uno stato violento”), è l’Arbasino baffuto, quello che sta in copertina a “Certi romanzi” edizione Einaudi. È l’unico arbasino televisivo, e si pensa che non sia stata una grand’esperienza, visto che non la ripeterà più.  Non per gli ascolti, che pure furono buoni, 7,5 milioni in media a puntata. Ma la messa a punto del tutto. Scrive nella “bio” contenuta nel Meridiano Mondadori: “Furono indubbiamente ‘bocconcini’ quelle eccellenti polemiche con scontri personali e professionali fra protagonisti con vedute diversissime, però fu assai faticoso: ho dovuto fare tutto da solo e ho telefonato sempre io a tutti i partecipanti perché con personaggi amici di quella levatura non sarebbe stato gentile delegare a una segretaria. Ad esempio furono parecchie le telefonate con Monica Vitti sempre tentata e sempre titubante sugli effetti promozionali e definitivamente incapace di decidersi ma in un passato anche recente la qualità media - alla radio e in televisione e in altri campi - era assolutamente più elevata come spesso giustamente si osserva”.

 

 

Si capisce anche perché fosse restio: l’esperienza di “Match” arriva tra “un’estate 1977 trascorsa a Fire Island e alle Hawaii, e l’inverno in Brasile (e nel ‘78 di nuovo a Fire Island “in gaie compagnie stagionali: stilisti creativi e contestativi, Egon von Fürstenberg, Truman Capote, Robert Mapplethorpe, fotografi e architetti molto trasgressivi e celebri, tra le spiagge e le dune”. Tornare a viale Mazzini non doveva essere proprio “exciting”, avrebbe detto lui.

 

“Io andai solo perché costretta, assediata dal suo charme”, racconta oggi al Foglio Lidia Ravera, protagonista di una delle puntate preferite degli appassionati, quella che la vedeva faccia a faccia con Susanna Agnelli. Era una storia perfetta. Due bestseller, due donne, due mondi. La Agnelli, cinquantacinquenne, reduce dal successo clamoroso di “Vestivamo alla marinara”, le sue memorie tirate a lucido da Cesare Garboli, e la giovane scrittrice trasgressiva di “Porci con le ali”. “Fu la mia prima apparizione televisiva. Avevo ventisei anni. Ero letteralmente terrorizzata”, dice ancora Ravera. Tutte e due torinesi, peraltro. “Un rotocalco scrisse che la Agnelli si era scontrata con la figlia di un suo umile operaio. Mia madre si incazzò moltissimo, perché mio padre era ingegnere. Di una consociata Fiat, sì, ma ingegnere, non operaio”. Lotta di classe e travestimenti: “io andai a comprarmi un tailleur, cercando di fare la sciura, lei si presentò in jeans”. Il confronto è notevole. Un Arbasino forse un po’ imbarazzato (“Susanna… Suni… Agnelli”). La Ravera infagottata appunto in un tailleur bizzarro e con un taglio di capelli pure bizzarro. “Non ero mai stata in tv, dunque mi pettinai e truccai da me. E niente taxi. Il mio corteggiatore di allora, che è il mio compagno di oggi, si offrì di portarmi in macchina alla Rai. Ma rimanemmo senza benzina”. Altro panico. Lo scontro è interessante, Ravera parte lancia in resta e accusa la Agnelli e il suo libro d’essere soprattutto un manifesto (si direbbe oggi) del privilegio, un “album di famiglia della signorina Agnelli”. La Agnelli con zampata padronale risponde: “Ha perfettamente ragione, è un album di famiglia. Come del resto il suo”, come dire: io ho le mie cameriere che si innamorano e i miei jet privati, lei le sue scopate gruppettare.

 

 

Poi Ravera dice che a lei proprio il libro della Agnelli non è piaciuto, e Agnelli dice che ha visto il film di “Porci con le ali”, e l’ha trovato “uno dei più noiosi mai visti”, ma il libro – colpo di scena – le è invece piaciuto molto, “e in aeroplano vedo molti che lo leggono di nascosto, messo dentro a qualche altro che considerano più serio”. Poi fa un sacco di domande alla giovane rivale. A un certo punto dal coro interviene un giornalista che accusa entrambe di aver scritto libri “a tavolino”, cioè “per il successo commerciale” – accusa gravissima, che oggi fa sorridere di tenerezza – e lì rispondono grandiosamente entrambe: la Ravera dice in pratica “perché, dove altro si scrive un libro?”, e la Agnelli dice: “Io l’ho scritto perché me l’ha chiesto un editore, se non lo sa si vede che non l’ha letto, sta scritto nell’introduzione”. Prima dell’epico confronto, Arbasino aveva tenuto la sua “intro” sul tema del bestseller al femminile in Italia, e tira dentro un suo tormentone, la damnatio memoriae ai danni di Carolina Invernizio (un Sveva Casati Modignani d’antan), “che era di Voghera come me e non le è stata mai dedicata una via, nemmeno un vicolo, nemmeno vicino alla stazione” (Arbasino si occupò della questione dell’intitolazione urbanistica alla Invernizio anche in veste di parlamentare nell’unica legislatura che fece, dall’83 all’87, come indipendente nel Partito Repubblicano. Seconda commissione, insieme a Natalia Ginzburg). 

 

L’introduzione verte poi anche sul “journal”, la diaristica, genere molto praticato nella letteratura anglosassone, e assente in Italia. E lì, soprassalto di snobismo, la Agnelli precisa che il libro glie l’ha chiesto infatti “un editore inglese”. Interviene Giuliano Zincone, côté Ravera. Sorride Lina Sotis, giovanissima, lato Agnelli.

 

Altra puntata cara ai cultori è quella con Paola Borboni contro Manuela Kustermann: due attrici, una vecchissima e gloriosa, e una giovane ed emergente. E lì, siparietto tra la Borboni in delirante mise, tailleur cangiante dorato e occhiali fumé e guantini di tulle, e Arbasino che straparla di “chicche ghiottonerie e giuggiole”. “Ma Arbasino, ma tu non sai niente!”, tuona l’ottuagenaria, con marito quarantenne nel pubblico (lui morirà, poveretto, l’anno dopo, in un incidente a cui lei sopravvive); “sei frastornato! Le tue giuggiole mi hanno fatto già fare indigestione!”. Femminismo (“ho lavorato tutta la vita. Cosa posso essere se non femminista?”) e macho-culture (“il maschio italiano lo vogliono tutte, è un animale importante. All’Italia ha fatto più bene Rodolfo Valentino che Garibaldi”).

 

Un’altra puntata famosa è quella con Mario Monicelli, in quota “venerato maestro” della commedia all’Italiana, contro l’emergente Nanni Moretti (nella foto sopra). E lì, è bello mettere in pausa per godersi i dettagli, la prossemica. Monicelli reduce da “Un borghese piccolo piccolo”, giacca e cravatta, camicia a righe, capello candido. Nanni Moretti, ventiquattrenne, Clarks e capello lungo, sguardo infastidito fin dalla prima inquadratura, viene dal successo del suo primo film, “Io sono un autarchico”. Interviene Leo Benvenuti, leggendario sceneggiatore tra l’altro di “Amici miei”. Anche qui, i vecchi sono accusati di essersi preso tutto, di volere il successo. Rispondono con ironia, talvolta con sufficienza, un po’ incespicando. Monicelli dice più volte “Zero sette” invece di “Zero zero sette”, per indicare i film di James Bond.

 

Ma ci sono poi le puntate meno famose, quelle di impegno civile, per esempio una tra due grandi architetti come Leonardo Benevolo e Paolo Portoghesi a tema città invivibili (quelle fatte di “appartamenti dove è agghiacciante vivere” e uffici dove “è allucinante lavorare”). Anche lì, a sgomentare oggi è che la trasmissione sembra fatta veramente per capirci qualcosa, non per buttarla in caciara.  E che protagonisti anche di primissimo piano si prestino. In una sull’economia italiana Arbasino declina il tema alla sua maniera: conoscenza “seria” e coscienza politica, chiave super ironica. Dunque ecco il tema: la centralità della fabbrica in Italia, e lo scempio del paesaggio con l’industria pesante, chimica e petrolchimica, soprattutto al Sud. Rispetto al mito e alla centralità della fabbrica che c’è in Italia, dice, “altrove, per esempio in America, ce ne sono altri, di miti; quello del West, quello dei cowboy. Certo se l’avessimo avuto anche noi un po’ di più non dovremmo spendere tutti questi miliardi per l’acquisto della carne all’estero”. Tra cowboy e carne e industria di Stato ne discutono Francesco Forte, leggendario economista mancato qualche giorno fa, e un giovane e occhialuto Romano Prodi.

 

Tra le puntate meno glamour ma più indicative e anche profetiche c’è quella che vede contrapposti vecchi e nuovi medici. Il chirurgo di chiara fama Paride Stefanini contro il giovane Albano Del Favero. Il primo è un pioniere dei trapianti, un “barone universitario”, come lo introduce Arbasino. “Ma no, almeno principe”, corregge il professore (i vecchi sono quasi sempre più ironici). Il secondo, compito e nervoso, esponente della medicina democratica. Si accusano i professoroni: che fanno i medici “per guadagnare”. E “il sistema: bisogna combattere le cause, non creare gli ospedali”, l’ospedale è considerato luogo di privilegio. Interviene dal pubblico Roberto Gervaso giovanissimo: “ma lei a chi si rivolgerebbe, in caso di emorroidi: a un medico democratico incalzato dall’impegno politico o a un barone incalzato dal guadagno?”. Già la comparsa delle emorroidi in uno studio televisivo getta un presagio nefasto sulla tv che verrà dopo. Ma, quando il discorso verte – di nuovo – sulla centralità della fabbrica, e sui medici come “professoroni”, “Di questo passo’”, dice il barone o principe, “l’operaio verrà qui un giorno a dirmi come devo fare un’appendicite”, pensando d’aver pronunciato un’iperbole. Del tutto inconsapevole d’aver appena enunciato invece quella che sarà, quarant’anni dopo, la formula aurea del talk televisivo (e non solo). 

 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).