Anish Kapoor, “Taratantara”, 1999, Pvc e acciaio (Baltic Centre For Contemporary Art, Gateshead 2000 - foto John Riddy). Kapoor espone a Roma, al Macro di via Nizza, da oggi al 17 aprile

Il corpo ben scavato

Giuseppe Fantasia

Squarci, strappi, ferite: la materia degli inizi ora sembra carne, plasmata in una bellezza di forme e colori che incanta e disorienta. L’arte di Anish Kapoor in mostra a Roma

Mettete da parte, almeno per un istante, tutto quello che sapete o immaginate su Anish Kapoor, ma non dimenticatelo, perché ciò che è stato, come spesso avviene nel mondo dell’arte, può sempre tornare e trasformarsi in qualcos’altro, fondamentale per comprenderne il presente. Per oltre trent’anni, l’artista indiano (è nato a Bombay nel 1954), ma londinese d’adozione, ha amato lavorare sull’indagine dello spazio fino ad entrarvi e trovarne uno infinito: l’interno della materia. Ha tenuto a evidenziare che quest’ultima non è fatta solo di volume, ma anche di vuoto e ce lo ha (di)mostrato nei suoi oggetti come nelle sue tante ed enormi sculture che costruiscono un percorso in cui è continuo il rimando tra il pieno e ciò che non lo è, tra la presenza e l’assenza, tra il concavo e il convesso, tra il dentro e il fuori. Pensate a “Tall Tree and the Eye” – l’albero/scultura con settantatré sfere in acciaio esposto per la prima volta alla Royal Academy of Arts di Londra (che gli dedicò un’indimenticabile personale nel 2009, la prima a un artista vivente), ora in pianta stabile al Guggenheim di Bilbao – che per materia ricorda il celebre “Cloud Gate” – l’enorme “fagiolo” al Millennium Park di Chicago, di cui ne è divenuto il simbolo grazie a quella sua forma liquida, ispirata dal mercurio, che ingloba lo skyline della città in uno specchio ellittico che lo distorce e riflette, offrendo così un nuovo quadro in movimento.

Pensate al “Leviathan” e ai suoi settantaduemila metri cubi di pvc – posizionati nel 2011 al Grand Palais a Parigi per indagare la vastità dell’io – ai centocinquanta metri di lunghezza di “Marsyas” – la scultura rosso e nera in pvc e poliestere alla Tate Modern di Londra con quella sua forma che ricorda la tromba di un grammofono, poi utilizzata anche per “The Farm” – a Kaipara Bay, in Nuova Zelanda – e per la più piccola “Window” – tutta nera, al Maxxi di Roma – fortemente voluta dall’archistar Zaha Hadid. Usando i suoi materiali preferiti – l’acciaio specchiante, i pigmenti puri di colore, il metallo ossidato e un cocktail di cera rossa e vaselina – Kapoor ha dato vita a forme che incarnano il senso profondo di forza e di mistero della sua opera, unica nella sua complessità e nell’utilizzo della fisicità della materia, a sua volta plasmata in una bellezza di forme e di colori che eccitano e incantano insieme e che, a volte, persino destabilizzano. Se il vuoto è importante (“è uno spazio transitorio; è quel momento di tempo che precede la creazione e in cui tutto è possibile”, ha dichiarato), lo è anche il tempo che lo contiene, che per lui è la verità mistica dell’arte, assolutamente fondamentale per capirla e apprezzarla meglio.

 

 

 

Figlio di un’irachena ebrea e di un indiano, buddista e grande amante del bello, Kapoor ha sempre voluto scavare nella materia e farlo fino in fondo, per attraversarla e scoprire cosa si nasconde al suo interno, ma se in passato la sua ricerca si concentrava principalmente sull’indagine della visione per andare oltre la superficie visibile, oggi ha deciso di spingersi più in là, di continuare a scavare, sì, ma dentro il corpo, di uomini o di animali fa poca differenza, l’importante è che sia un corpo. Ve ne accorgerete di persona visitando la mostra organizzata in suo onore negli spazi del Macro – il Museo d’arte contemporanea in via Nizza, a Roma – una grande retrospettiva (visitabile da oggi fino al 17 aprile prossimo) che segna il ritorno in Italia di uno degli artisti e scultori più richiesti e pagati al mondo, dopo la personale alla Fondazione Prada (nel 1995), al Museo Archeologico di Napoli (2003), alla Rotonda della Besana (2011) e alla Galleria Continua di San Gimignano (2015), quest’ultima intitolata “Descension”, tutta incentrata sull'infinito e sull'eternità. Questa volta, però, uno dei più giovani vincitori del Turner Prize, ha deciso di stupirci sul serio, mostrandoci tutta una serie di lavori mai esposti prima – a eccezione di “Internal Objects in Three Parts” (esposto al Rijksmuseum di Amsterdam davanti ai Rembrandt) – e realizzati negli ultimi otto anni in un ex caseificio – divenuto oggi il suo quartier generale – a Camberwell, a sud di Londra. “In queste nuove opere, le tradizioni e le funzioni della scultura, con tutto il bagaglio storico e retorico, si trasformano e si donano come un corpo vivo e interattivo che innesca una dialettica con gli archetipi dell’umano”, spiega al Foglio Mario Codognato, curatore della mostra. “Come il corpo umano – aggiunge – le sue opere sono costituite e foggiate da cavità, da orifizi, da fenditure, da ferite e da abrasioni, da piegature, da rovesciamenti e da aperture, verso l’interno della materia e simultaneamente verso l’ambiente esterno, come se la stessa realtà visiva e tangibile fosse concava e convessa al contempo”.


L’apertura diventa così il soggetto e lo stratagemma dell’opera e il complesso che costituisce la stessa è un’apertura letterale e/o metaforica. “La tensione generata da quei lavori diventa così più fisica e la materia sembra carne, indagata dall’artista con una freddezza che rasenta il sadismo”, aggiunge Costantino D’Orazio, autore di uno dei testi del catalogo pubblicato da Minerva Edizioni. Una volta dentro le due grandi sale al pian terreno, avrete di fronte sculture che sembrano dei corpi dilaniati, tagliati e poi legati su tele (“Inner stuff” e “Dissection” non possono non far pensare a Burri), appesi alle pareti o sospesi al soffitto come pezzi di carne da macello, dei brandelli in resina o vetroresina dipinta con silicone, colla e accumulo di tanti altri materiali che mortificano e celebrano allo stesso tempo il corpo attraverso la rappresentazione del dolore. Come spesso accade in Kapoor, le sue opere, non sono altro che configurazioni di oggetti che invadono gli spazi della sala o del luogo in cui si trovano fino ad assorbirli e farli diventare parte integrante dell'opera stessa, ma qui, più che mai, troverete opere che occorre vivere e da cui bisogna lasciarsi invadere.

Ci aveva già abituati con “Svayambh” – un gigantesco vagone-monolite di cera rossa, montato su delle rotaie, che attraversava e imbrattava lentamente i percorsi della Royal Academy of Arts – o con “Shooting into the corner”- il cannone che sparava colpi (rosso sangue, ça va sans dire) sulle pareti dello stesso edificio, poi esposto in molti altri musei del mondo. Ha continuato con “Sectional Body Preparing for Monadic Singularity”, esposta l’estate scorsa nel giardino del castello di Versailles e che ritroverete anche qui, ma in perfetto dialogo con l’architettura di quegli spazi, una di quelle opere in cui è possibile entrare fisicamente viste anche le dimensioni e la struttura, puro esempio del grande fascino che può avere su di lui il vuoto e la sua possibilità di poterlo rappresentare. Anche stavolta ha deciso di portarsi dietro fessure, strappi e tagli, ma qui tutto diventa un taglio organico che finge l’organicità e che, volutamente, sorprende e disorienta insieme. Siamo da sempre abituati a vedere un Kapoor fascinoso che lavora sull’illusione, ma in queste opere ha deciso di mettervi dentro la passione e – soprattutto – di essere più tragico, quasi a voler far sì che le stesse siano una sorta di simbolo dei tempi che corrono, oltre che mezzi usati per investigare il lato oscuro della religione e dell’animo umano, capaci di metterne a nudo i desideri e di giocare sull’ambiguità tra attrazione e repulsione che – come ci fa notare D’Orazio – “non è provocata dallo spaesamento dello sguardo, ma dalla crudità del racconto”.

Le opere di Kapoor sono spesso un attentato alla struttura, un’alterazione della struttura intesa come codice definito, definitivo e definente, come modello o prassi. Invita a entrare in uno spazio che si contorce o si riflette come in uno spasmo materiale, come in un’inquietudine, in un’agitazione volumetrica. L’artista questa volta si è trasformato in una sorta di macellaio che ha lavorato in prima persona con il suo bisturi dell’esperienza, sezionando corpi per nutrire la sua (e la nostra) conoscenza. Ha aperto, tagliato, cucito, scavato e scavato ancora fino a trovare la consistenza stessa del corpo, pieno di una materia che diventa a sua volta protagonista, una “carne” rossa, macellata, disossata e inerte, lembi di carne incisi per guardarci dentro, sfidando l’urlo della sofferenza. Opere, le sue, che – come dice Codognato – invitano ad accettare, nostro malgrado, che di sangue, e di dolore,?è intrisa la porta dell’esistenza, quella da cui si passa anche, e soprattutto, per venire al mondo. Con il suo lavoro archetipico, intimo, imponente e dialettico, Kapoor presenta, affronta e investiga le condizioni di quella materia stessa, oltre alle dinamiche della percezione e al potere della metafora.

Le tele sono squarciate (“Foetal”, Écorché” e “Inner Stuff” ne sono un esempio) e quasi implodono, mentre, poco distanti, tra le sue opere più conosciute (“Corner Disappearing into Itself”, “Negative Box Shadow” e il celebre “Mirror - Black to Red”), c’è una massa informe di grumi di silicone che viene avvolta in garze grezze o imbevute di pigmento. Opere come “Transparent Skin”, come “Bleed” e “Her Body in Violet Mist”, quest’ultima anche nella versione blu, sono protette e trattenute, quasi soffocate nel loro essere: sono qualcosa che si vuole mostrare ma fino a un certo punto, perché, principalmente, vogliono agire sull’inconscio e penetrare i sensi di chi le guarda, confrontandosi e offrendosi nel loro essere materia, oltre che catalizzatrici di desideri e di paure. Immagini viscerali, brutali e sensuali allo stesso tempo, che potranno piacere come il suo contrario, ma che, sicuramente, metaforizzano e metabolizzano per induzione il mistero della vita.

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