Daniel Buren, “Axer-Désaxer”, Madre, Napoli 2015 (courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli - photo © Amedeo Benestante)

Vedi Napoli e poi il museo

Giuseppe Fantasia

L’antico e il moderno, il moto e la quiete: il Madre, uno spazio espositivo integrato nella città con la forza del paradosso. Due mostre e una collezione da non perdere

Il movimento e la quiete, l’antico e il moderno, l’interno e l’esterno, ovvero il museo e la sua comunità capaci di attrarsi e di compenetrarsi l’uno nell’altra, fino a confondersi fra loro. Accade tra Napoli – e non potrebbe essere altrimenti vista la particolare ed affascinante conformazione artistica e culturale della città – e uno dei suoi musei più recenti (ha solo undici anni), il Madre, il Museo d’arte contemporanea Donnaregina, un grande spazio espositivo su tre piani che trae il proprio nome dall’edificio che lo ospita – il Palazzo Donnaregina – e che a sua volta lo riprende dall’omonimo e adiacente monastero trecentesco fondato dagli Svevi, poi ampliato e ricostruito nel 1325 dalla Regina Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò. Inaugurato nel 2005 dopo un lungo lavoro di restauro affidato all’architetto portoghese Álvaro Siza (Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia nel 2012), il Madre è uno splendido esempio di quella stratificazione storica tipica di tutto il centro antico di Napoli e nel tempo è divenuto parte integrante di quella che è stata denominata la Via dei musei, sulla via Duomo, poco distante dal “tesoro” di San Gennaro, dal Museo archeologico nazionale, dall’Accademia di belle arti e da San Gregorio Armeno.

Una volta arrivati in via Settembrini, cuore del quartiere San Lorenzo, sarà il colore giallo ad attirare la vostra attenzione, colore simbolo del museo che ritroverete anche sulla grande tenda a righe all’ingresso, posizionata lì da Daniel Buren. Inizia così “Axer-Désaxer”, un particolare “invito a entrare”, il principio di una grande macchina scenica voluta dall’artista francese per rimettere in asse il museo con la sua via e il suo quartiere, “un gesto simbolico, uno spazio di visione, mediazione, attrazione e comunione reciproche, con cui Buren sospinge il museo verso la città e accoglie la città nel museo”, spiega al Foglio Andrea Viliani, direttore generale del Madre dal 2013. Ne avrete la percezione voi stessi una volta entrati nell’edificio, dopo aver attraversato e toccato con mano quelle fettucce che per volere dell’artista – uno dei più influenti esponenti della riflessione storica sulle istituzioni denominata Institutional Critique – misurano tutte 8,7 centimetri. A quel punto, sarà facile e piacevole perdervi tra quei colori dalle tonalità (mai banali) del rosso, del celeste e del giallo, calpestare la guida in bianco e nero per poi ritrovarvi coinvolti in un gioco di luci e di riflessi, sulle pareti come sul soffitto, che vi faranno essere, in un certo qual modo, coautori di quegli spazi e non dei semplici estranei. Concepita da Buren in situ, un’espressione da lui stesso più volte utilizzata per indicare la stringente interrelazione fra le sue opere e i luoghi in cui esse sono concepite e realizzate, “Axer-Désaxer” è visitabile fino al 31 luglio del 2017, ma l’ideale sarebbe trovare dei fondi per poterla acquistare e farla diventare così parte della collezione permanente del Madre.

Restate al piano terra, perché è lì che iniziano due grandi mostre temporanee – “Retrospettiva a luce solida” e “Sette stagioni dello spirito” – dedicate rispettivamente agli artisti romani Fabio Mauri (1926-2009) e Gian Maria Tosatti (1980), entrambe visitabili fino a marzo. Due mostre da non perdere che vanno ad aggiungersi al significativo percorso museale del Madre che ha ospitato personali di Boris Mikhailov (in contemporanea con quella al museo Camera di Torino, di cui vi abbiamo parlato su queste pagine), di Mimmo Jodice e di Camille Hernot. La prima, curata da Laura Cherubini e da Andrea Viliani, propone più di cento fra opere, installazioni, azioni e documenti di uno dei più grandi esponenti delle neoavanguardie della seconda metà del Ventesimo secolo, un esploratore accanito dei meccanismi dell’ideologia e dei linguaggi della propaganda, dell’immaginario collettivo come delle narrazioni mediatiche, in particolar modo cinematografiche. Suddivisa in tre sezioni, questa mostra riesce a trasformare il museo stesso in un proiettore speciale e i suoi tre piani “nello spazio-tempo di un’esperienza critica, in cui il pensiero si fa fisico e concreto fino a confondere il white cube museale con il palcoscenico teatrale e la scatola nera della sala cinematografica”, spiegano i due curatori. Di forte impatto sono l’opera-libro “Linguaggio è guerra” (1975), “Oscuramento” (1975), “Il Muro occidentale o del Pianto” (1993) e “Teatrum Unicum Artium” (2007), opere, installazioni, azioni e documentazioni afferenti alla matrice performativa e teatrale della ricerca dell’artista. Da non perdere, poi, la prima opera teatrale di Mauri – un monologo in due tempi e due scene intitolato “L’isola” (1960) – la presentazione inedita nella Sala delle Colonne dell’integrale corpus delle maquette architettoniche (che ricostruiscono i percorsi espositivi delle principali mostre dell’artista), la serie degli “Schermi” (risalente agli anni Cinquanta-Settanta), e una pluralità di altre opere e materiali connessi alle dinamiche della proiezione, tra cui i principali lavori scultorei e installativi della fine degli anni Sessanta oltre a una selezione delle opere con proiezioni.

La mostra di Tosatti, invece, va a ripercorrere l’imponente progetto pluriennale con cui questo giovane artista è andato a coinvolgere l’intera città di Napoli, restituendone anche il percorso “dietro le quinte”, permettendo così al pubblico di riviverlo nella sua articolazione complessiva. Nell’ideazione e nella realizzazione del progetto – promosso e organizzato da Fondazione Morra con il sostegno della Galleria Lia Rumma – l’artista ha ripercorso la traccia del “Castello interiore”, il libro del 1577 in cui Santa Teresa d’Avila suddivide l’animo umano in sette stanze, qui trasfigurate dall’artista in altrettante, monumentali installazioni ambientali realizzate senza un ordine temporale preciso. “Quella di Tosatti – fa notare Eugenio Viola, curatore della mostra, in un testo del catalogo che sarà pubblicato in primavera da Electa – è un’opera in formazione progressiva, tesa a ridefinire il rapporto fra arte e comunità e concepita come un unico grande romanzo, visivo e performativo, organizzato anch’esso in sette capitoli che, esplorando la città e la dimensione comunitaria del vivere civile, sondano l’animo umano teso fra i limiti, antitetici ma complementari, del bene e del male”. Una città – in questo caso Napoli, ma in passato per Tosatti lo sono state Roma (“Devozioni”, 2005-2011) e New York (“I’ve Already Been Here”, 2011 - ancora in corso) – che è vista come un doppio, come un’analogia dello spirito in cui le forme interiori dell’essere umano si articolano in una composizione concreta, e il risultato non può che essere stupefacente.

Dalla Project Room al piano terra – con il pavimento dello studio dell’artista e il suo diario – si arriva al secondo piano dove troverete il lungometraggio che racconta l’intero processo di realizzazione del progetto e le “camere mentali” che una volta attraversate vi faranno comprendere meglio quella “sinfonia per la città e i suoi abitanti” tipica di Tosatti, oltre a evidenziarne la capacità nel recuperare e nel riaprire, proprio ai fini del progetto stesso, alcuni edifici storici e monumentali, prima abbandonati o dismessi, dalla chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai Banchi nuovi (“La peste”) all’ex Anagrafe comunale in piazza Dante (“Estate”), dagli ex magazzini generali del porto (“Lucifero”) all’ex ospedale militare (“Ritorno a casa”), dall’ex convento di Santa Maria della Fede (“I fondamenti della luce”) all’ex fabbrica nel quartiere di Forcella (“Miracolo”) fino al convento della Santissima Trinità delle Monache (“Terra dell’ultimo cielo”), con cui ha suggerito una possibile suggestione sul destino finale dell’uomo.

Anche se sarete un po’ stanchi, approfittatene, se non lo avete mai fatto, per ammirare la collezione permanente del Madre, a cominciare dal video dell’artista Raffaella Mariniello intitolato “Still in Life” che prende forma visiva e contenuto dalle ceneri del complesso della Città della Scienza, distrutto da un incendio doloso la notte del 4 marzo 2013 in circostanze non ancora del tutto chiare. Molto suggestivo, al primo piano, è “Ab Ovo”, l’intervento di Francesco Clemente (presente anche con “Place of Power I” e “Place of Power II”) che si articola in un affresco di proporzioni monumentali e in un pavimento in ceramica che rinnova la tradizione delle antiche maioliche campane. Continuate il cammino tra le sale con Anish Kapoor e la sua “Dark Brother” in vetroresina – capace di spiazzare chiunque – e con “Spirits con specchi e teschi” di Rebecca Horn – che susciterà in voi la sensazione di assistere a un fenomeno di continuità – ma non dimenticate di guardare dalla vicina finestra alcune delle stanze più belle in stile gotico della chiesa di Donnaregina Vecchia.

Poco distante c’è “Enigma” di Giulio Delvé, appositamente concepito per la Sala della musica del museo e l’area lounge del bar, e a seguire, nel piano successivo, sale divise per linguaggi, sezioni e periodi con opere in continuo divenire. Sono enormi e di grande effetto le tele dell’australiano Lawrence Carrol – che riproducono il contributo che fece al Padiglione della Santa Sede nel 2013 (quando, assieme a Josef Koudelka e Studio Azzurro, produsse un padiglione diviso in tre sezioni: Creazione, De-Creazione e Ri-Creazione) – come quelle del sudafricano William Kentridge (“La serie dei portatori: la spedizione di Jeune Cyrus e la ritirata dei Mille”). Luigi Mainolfi vi stupirà, come solo lui sa fare, con la scultura in gesso indirizzata a indagare lo sdoppiamento sia fisico che mentale della propria immagine. Vi suggeriamo poi di soffermarvi davanti al minimalismo di Liam Gillick, alle visioni multicolor dei due “ragazzacci” Gilbert & George e all’omaggio di Andy Warhol a Joseph Beuys (presente anche con “Rosa per la democrazia diretta”), da lui incontrato negli anni Ottanta proprio nella città partenopea grazie al gallerista Lucio Amelio.

Ultimo step, ma fondamentale, è la visita alla terrazza. Sulla sinistra campeggia la statua del cavallo di Mimmo Paladino – che rimanda a un universo arcano e primitivo di cavalieri e migrazioni, viaggi e guerre – dall’altro c’è una scritta: “Il mare non bagna Napoli”, del duo di artisti Giovanna Bianco e Pino Valente. Una frase che cita l’omonimo titolo di una raccolta di racconti e reportage giornalistici di Anna Maria Ortese (pubblicato da Adelphi) che restituisce le difficoltà, il dramma e la sofferenza della città nel Dopoguerra con uno sguardo critico, talvolta impietoso. Ma Napoli è anche lì in tutta la sua magnificenza, con tutti i suoi pregi e difetti, e lo spettacolo che offre vi farà restare senza fiato. Con i suoi palazzi aristocratici, le case decadenti, le sue chiese e i suoi conventi, è il cuore pulsante di un corpo immortale, è l’impronta di una storia che non si cancella.

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