Ormai sono starlet e attori di terza fila, senza lo smalto degli anni Ottanta. “Very important person” oggi, più che altro un’ambizione

Il vip che tramonta

Fabiana Giacomotti

Ormai sono starlet e attori di terza fila, senza lo smalto degli anni Ottanta. “Very important person” oggi, più che altro un’ambizione

In vista del Natale, una cara amica che sostiene la Lega nazionale del cane si è accordata con un viticoltore di chiara fama e da qualche giorno propone sul sito dell’associazione simpatici cofanetti di bottiglie di spumante che è possibile personalizzare con la foto del quattrozampe di famiglia: il titolo dell’iniziativa è “sparkling vip”, dove sparkling sta per bollicine e vip è l’acronimo di very important pets. Come “person”, anche la definizione inglese di “animale domestico” inizia infatti con la lettera P, qualcuno direbbe con maggior senso rispetto a certi volti che si vedono nei programmi televisivi o sui rotocalchi. Se ne è lamentata ai microfoni di M2O radio perfino la figlia di Ornella Muti, Naike Rivelli, estroversa ragazza di cui conosciamo l’intero guardaroba di lingerie, lamentando di non capire a quale titolo fosse non solo entrata nella casa, ma avesse addirittura vinto la prima edizione di “Grande Fratello Vip” tale Alessia Macari, nome di battaglia “la ciociara”, una giovanissima di profilo incerto anche per il web che di solito ne sa una più del diavolo. Facendo qualche ricerca attorno al suo nome per scrivere questo articolo, ho scoperto che la signorina Macari usa per esprimersi un’intrigante neolingua in cui “pedalare” significa “viziare” (“mi hanno pedalata”, “ti hanno pedalata”, anche nella forma riflessiva “mi sono pedalata” eccetera) e che ritiene di aver vinto la competizione perché “la gente sente la mia spontaneità”, una virtù che, come saprete, da qualche anno ha sostituito in televisione come in politica requisiti noiosi quali la “professionalità” e la “competenza”, da cui i pianti smarriti di Virginia Raggi sul balcone del Campidoglio.

La fanciulla ciociara tanto nature, diciamo una Atala più smaliziata, ha dunque sbaragliato la concorrenza, e la “figlia della diva”, come si definisce la Rivelli con un sussiego davvero inatteso per una che succhia pistole sulle riviste per maschi adulti e femmine curiose, se ne è molto risentita. Uno scontro fra titani del pensiero contemporaneo, direte voi, e avete certamente ragione, ma anche se elencassi altri nomi e situazioni diverse, il perimetro della questione rimarrebbe lo stesso, e conterrebbe sempre le stesse mezze figure, gli stessi attori di terza fila, i soliti ciarlatani della dieta televisiva, gli usuali faccendieri un giorno sulle riviste e l’altro a Regina Coeli, come per esempio Giovanni Cottone, l’ex marito di Valeria Marini che è simpatica e furbissima imprenditrice di se stessa ma ecco. Adesso che i media si sono moltiplicati a dismisura grazie a internet e che i social media hanno trasformato ciascuno di noi in un vip per così dire autogeno, un Narciso che si specchia decine di volte al giorno su Instagram e che controlla furiosamente i “like” ottenuti per ogni immagine di sé postata, l’acronimo si è fatto ancora più labile di quanto fosse una trentina di anni fa, quando risuonò esotico nelle orecchie di noi italiani già frastornati da quella prima, massiccia ondata di termini anglosassoni che accompagnava la Milano da bere e la nazione craxiana. Eravamo diventati ricchi o almeno ci pareva di esserlo, in mezzo a tutti quei lustrini e a quei capelli cotonati.

 

 

Avevamo tenuto botta su Sigonella, o almeno non credevamo ci fosse stata una contropartita come abbiamo scoperto da poco; al Ministry of Sound di Londra si arrivava giocoforza in limousine mentre a Roma la molto rimpianta Marta Marzotto e Marina Lante della Rovere, non ancora Ripa di Meana, si sfidavano fra mise stravaganti, amanti di bella pittura e cappellini sulle ventitré, e a Milano si iniziava a sussurrare con insistenza quella parolina arricciata e scoppiettante sulla sua esplosiva finale: vip. Non essendo ancora entrato nel parlato comune e accolto nel Devoto Oli, al plurale l’acronimo si accordava con la “s”, “vips”, e come tali si definivano fra di loro i personaggi nei film dei fratelli Vanzina e le starlette sui giornali popolari. La “S” si pronunciava con entusiasmo, con un ricco fischio, per sfoggiare la conoscenza dell’idioma, e si leggeva annuendo sorridenti come “quelli che fanno l’amore in piedi convinti di essere in un pied-a-ter”. Non eravamo ancora usciti del tutto dagli anni di piombo, ma già si sentiva voglia di smoking in affitto. Insieme con i mensili patinati per gli yuppies, i nuovi ricchi o aspiranti tali, i settimanali familiari erano stati i primi a cogliere l’opportunità di una definizione facile, orecchiabile e carezzevole per valorizzare una massa di gente che fino a quel momento non rientrava in alcuna categoria mediaticamente spendibile oltre a quella di “volto televisivo” o di “finanziere”, che però già all’epoca si tendeva a confondere nel migliore dei casi con i militari della Guardia di finanza, e nel peggiore con l’opacità dei funzionari del Banco Ambrosiano.

Vip, in italiano “persona famosa per il fatto di appartenere al mondo dello spettacolo, della politica o dell’economia”, in inglese “persona che viene trattata meglio della gente comune perché famosa o influente a vario titolo”, che è naturalmente la spiegazione più pragmatica e dunque più efficace e vicina al vero, zero perifrasi e dritti al sodo, era stata coniata per sostituire categorie già polverose come per esempio “jet set”, un po’ come da qualche giorno il “trumpismo” sta soppiantando con dosi massicce di volgarità esibita la volgarità più sottile e ipocrita dei radical chic o della gauche caviar, altro termine perfido e perfettamente azzeccato che noi italiani non abbiamo avuto il coraggio di inventare. In quegli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta in cui i vip andavano occupando spazio, Brigitte Bardot era ormai piena di rughe e già si entrava nella fase dei voli economici con l’aereo delle diciotto e cinquanta Londra-Milano affollato di impiegati. Persino il nobile editore che pare avesse inventato il termine di “jet set”, Igor Cassini, aveva già sposato e si era separato da Gianna Lou Muller, nota come Nadia Cassini o come “il culo più bello della televisione” e vedete che siamo già tornati al punto di partenza. Starlet e mezze tacche provviste di un’alta considerazione di sé grazie a un paio di tessere sconto e un vestito in prestito ogni tanto. La definizione di vip è piuttosto flou sia nel significato sia nell’applicazione: si trova pochissima letteratura che la riguardi, al contrario di quanto accade, per esempio, per snob, che è a sua volta (forse, non è mai stato acclarato del tutto) un acronimo, cioè l’unione fra nobs, il filius nobilis che a Cambridge definiva lo studente di alto lignaggio, e la “s” privativa di chi figlio di aristocratico non era ma per tenere botta, cioè non prenderle, che a Cambridge doveva essere anche allora questione non da poco, affettava modi raffinati.

Qualunque società, come dimostra il fallimento dei regimi basati sull’uguaglianza anche solo apparente, è portata per propria natura alla stratificazione, alla differenziazione per censo, disponibilità economica, cultura, modi. I vip sono solo l’ultima derivazione, o per meglio dire una deriva superficiale e annacquata, spesso grottesca, di un processo iniziato con il crollo dell’Ancien Régime e rafforzato lungo tutto l’Ottocento di una dominazione borghese tronfia ma insoddisfatta, che non avrebbe saputo come competere con un’aristocrazia pur colpita al cuore, economicamente debole, se non inventandosi nuove gerarchie trasversali, che includessero finalmente nel novero dei gentiluomini i cafoni infiocchettati e le preziose ridicole del Seicento di Molière. Solo il Novecento, il secolo breve ma dei lunghi viaggi di piacere per chi poteva permetterselo, ne ha contate almeno una decina, tutte legate non a caso ai trasporti e alla baldoria: la “café society” degli anni Trenta, quando mescolarsi ai gangster e bere alcol di contrabbando nelle tazze da consommé garantiva alle gran dame un brivido in più; la “steamer society” dei primi Quaranta, che attraversava l’Atlantico almeno una volta all’anno a bordo della Queen Mary per far spese nella boutique parigina di Coco Chanel e tornare a godersi le feste di Natale a New York; la “jet society” anni Cinquanta che festeggiava a Londra e faceva colazione a Roma la mattina successiva sulla terrazza del Pincio. I vip, con le loro derivazioni commerciali e l’imbastardimento lessicale del “vippismo” e della “vipperia”, che era già segno di disprezzo, sono arrivati appunto quando il jet era diventato patrimonio comune e il benessere diffuso richiedeva un contentino alla portata di chi avesse saputo sgomitare appena un po’.

Se i Lucien de Rubempré fossero stati creati adesso, avrebbero smaniato per la tessera Freccia Alata dell’Alitalia e la carta black di Italo. Contrariamente ai vecchi jetsetter, che oltre ad avere disponibilità economica avevano una qualifica da spendere, chi ricerca la definizione di vip, oggi è in generale gente dalla carriera vaga come il loro conto in banca, a cui l’acronimo garantisce un lasciapassare, qualche simpatico benefit per trascorrere il weekend lontano da casa e un inquadramento sociale utile, in realtà, anche ai professionisti delle pubbliche relazioni a cui tocca rimpolpare le liste di inviti ai cocktail delle boutique, dove più si è meglio è, e a noi giornalisti a cui tocca narrarne le gesta per dovere o anche imposizione di cronaca, ma che non sapremmo come definirli altrimenti. Se volete la prova inversa, posso garantire che al nome di Umberto Veronesi mai nessuno avrebbe accostato una definizione altra da quella di oncologo (“luminare della scienza medica” per i più aulici) e verremmo sommersi dagli improperi se ci saltasse in mente di definire un vip Mario Draghi, sebbene, per tornare alla definizione del nostro dizionario, di finanza stia tuttora dimostrando di intendersi parecchio. Per dirla in sintesi e nel codice degli uffici stampa e pr, chi merita il trattamento vip, la limousine in attesa all’aeroporto e la suite colma di fiori, non ha bisogno dell’etichetta. Chi la pretende, è lo stesso personaggio che trent’anni fa ti fregava il posto auto perché “lei non sa chi sono io”.

Nel giornalismo, la questione cambia almeno un po’. Il vip è un acronimo comodo, bisogna ammetterlo: tre lettere, un mondo. E il mondo dei rotocalchi è davvero molto vario: si nutre ogni giorno, ogni settimana, di volti nuovi, di storie piccanti, di ciociare fresche. Nel momento in cui faccendieri, ciociare e dulcamara della dieta miracolosa arrivano alla copertina, sarebbe impensabile occuparla con le quindici righe necessarie per spiegare non chi siano e che cosa abbiano fatto a un universo di lettori distratti dai selfie, ma per quale diavolo di motivo si trovino lì, su quella copertina. E’ questo il momento in cui la definizione di vip torna utilissima a noi giornalisti, che infatti alla categoria, abbondantissima e pronta appunto a rinnovarsi di continuo, abbiamo dedicato intere testate, non di rado di buon successo perché la vipperia è un traguardo davvero a portata di mano, basta mandare una mail accattivante a Rocco Siffredi dalla propria scrivania di delegata del Pd e incrociare, per così dire, le dita. Il vip è una definizione perlopiù transitoria, non troppo qualificante per chi ha sudato lacrime e sangue per raggiungere una posizione professionale soddisfacente.

Per questo, negli anni in cui mi sono trovata a dover fare a mia volta titoli e a controllarne l’ipotetico tasso di efficacia, avevo vietato categoricamente l’uso del termine, reputandolo svilente per i volti che sceglievamo di sostenere in copertina o fra le pagine, e con questo imbarcandomi in una lotta senza quartiere con i redattori, che giustamente ritenevano il termine vip ideale per chiudere in fretta titoli, pagine e andare alla festa del noto stilista, mentre una definizione già meno cheap e più adeguata ai tempi come “socialite” occupava un sacco di spazio in più. Adesso che nella moda i nuovi vip sono gli influencer, il problema è tornato a riproporsi con una battuta in più. Sarà un caso, ma nei rotocalchi familiari, dove si chiudono le pagine in battuta e bisogna essere chiari e intellegibili, gli influencer proprio non esistono.

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