Quando il treno racconta cosa si nasconde davvero nell'abisso del cuore umano

Marco Archetti

Delitti e binari. Un’antologia sopraffina

Una delle più belle descrizioni che letteratura offra di una stazione ferroviaria ce l’ha data Émile Zola. L’ha fatto ne La bestia umana, attraverso gli occhi del sottocapo stazione Roubaud, che dopo essere entrato nella stanza di mamma Victorie e aver posato sulla tavola il pane e una bottiglia di vino, apre la finestra, si appoggia al davanzale e guarda quel “largo trincerone che tagliava in due il quartiere dell’Europe. A sinistra, le pensiline dei piazzali coperti aprivano le loro gigantesche arcate, mentre il ponte dell’Europe, a destra, tagliava con la sua raggiera di ferro il trincerone che appariva e proseguiva di là, fino al tunnel delle Batignolles. E proprio sotto la finestra i tre doppi binari all’uscita del ponte si ramificavano, aprendosi in una ventaglio le cui aste di metallo, innumerevoli, andavano a perdersi sotto le pensiline. Nel nero groviglio dei vagoni e delle locomotive che ingombravano i binari, un grande segnale rosso macchiava il pallore del giorno”.

 

Ragionando su Nuovi delitti in treno, convoglio antologico di perle del giallo pubblicata da Polillo editore (230 pp., € 16,40 euro) è stato inevitabile partire da qui, ossia dal primo ricordo in materia, la stazione più lontana. E considerare che il treno ha ossessionato svariate categorie di persone – bambini, registi western, sindacalisti, psicanalisti (ah, le gallerie buie!) – ma indubbiamente sono stati i giallisti a renderlo il mezzo emblematico per antonomasia, ambientandoci le loro trame a intrigo al punto che qualcuno disse che la letteratura gialla era responsabile della cattiva reputazione delle ferrovie – in Italia no, hanno fatto tutto da sole, i treni non sono mai arrivati o partiti in orario nemmeno quando c’era il fosco manigoldo in orbace tanto citato a (s)proposito. I maestri assoluti sono stati gli inglesi, i francesi e gli americani, avendo intuito nel treno quel sintomo misterioso, quella chiave di possibile avventura, cornice perfetta per una storia gialla in ragione di ciò che la macchina rappresentava: un mondo chiuso in un viaggio inesorabile di estranei in contatto, promiscuo il necessario per favorire incontri e disincontri. E cogliendo il tratto estetico vagamente sinistro delle carrozze notturne, delle lampade giallastre, degli scompartimenti chiusi.

 

“Sembrava che tutto andasse bene, ma non era così. Su quella piattaforma, come nel mondo di fuori, divampavano le umane passioni. Durante quel viaggio, e prima di percorrere dodici miglia, il fuochista avrebbe ucciso William Deane, il suo macchinista”. Treni come crogioli di delitti e scabrose risoluzioni, perché sembra sempre che tutto vada bene ma non è mai così: eccolo il motore di ogni racconto di quest’antologia che mette in fila, come vagoni, pagine altrimenti irreperibili di autori che le pubblicarono su riviste specializzate. I nomi? Caviale per intenditori: Mathias McDonnell Bodkin, giudice e membro del Parlamento irlandese che inventò una coppia di investigatori, Paul Back e Dora Myrl, marito e moglie, qui alle prese con un bastone ricurvo; Ernest Bramah, segretario di Jerome K. Jerome, cui si deve l’invenzione dell’investigatore cieco Max Carrados, cartesiano e medianico nel procedere; sir Arthur Conan Doyle, che con Il treno scomparso firma uno dei pezzi più ricchi di suspense di tutta la raccolta, raccontando di quando, “in pieno giorno, in un pomeriggio di giugno, nella regione più densamente popolata dell’Inghilterra, un treno con i suoi occupanti scomparve”; Edmund Crispin, musicista e scrittore, che offre con Attenti ai treni un assolo di rara eleganza descrittiva (perfetto il paragrafo sul treno che abbandona la stazione entrando “nelle otto miglia di buio tra Borleston e Clough”); Freeman Wills Crofts, ingegnere che cominciò a scrivere durante una degenza e nel 1920 pubblicò I tre segugi, un successo da centomila copie; Victor L. Whitechurch, un ecclesiastico specializzato in gialli ferroviari che racconta di un uomo “con baffi militareschi” arrivato misteriosamente morto sul treno da Londra; infine Richard Austin Freeman, che con il suo dottor Thorndyke estrasse dal cilindro un coniglio alla Sherlock Holmes, e che qui propone con Il caso Oscar Brodski un esempio di “inverted story”, cimento per fuoriclasse: il lettore sa chi ha commesso il delitto e lo spettacolo è godersi come viene smascherato. La chiave del dottor Thorndyke? “Seguire fino in fondo anche il più insignificante indizio”. Seguire i binari, fin nell’abisso del cuore umano.

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