Il ritorno di un re

Ermes Antonucci
William Dalrymple
Adelphi, 663 pp., 34 euro

L’idea di scrivere una storia sul primo fallimentare tentativo degli inglesi di dominare l’Afghanistan (1839-1842) è venuta alla mente di William Dalrymple nell’inverno del 2006, quando l’invasione recente del territorio afghano da parte delle forze occidentali in seguito agli attentati dell’11 settembre cominciava a sgretolarsi. “La storia si stava ripetendo”, sostiene Dalrymple: dopo una facile conquista e l’insediamento di un governo fantoccio filo-occidentale, gli occupanti si trovavano ad affrontare una resistenza sempre più diffusa, tale da determinare l’avvio di un lento ritiro delle truppe internazionali, tuttora in corso. Eppure non si può dire che, a centosettant’anni di distanza dalla prima disastrosa intromissione dell’Occidente in Afghanistan, i segnali su quanto fosse difficile gestire il territorio non ci fossero. Ad accorgersene, sulla propria pelle, erano stati i britannici, che nel corso di quel “Grande gioco” militare, strategico e diplomatico che li vedeva contrapposti alla Russia per il controllo delle regioni del Medio Oriente e dell’Asia centrale, avevano tentato nella prima metà del XIX secolo di conquistare l’Afghanistan insediando un sovrano fantoccio, Shah Shuja, nipote di Ahmad Shah Abdali, fondatore dell’impero Durrani. Meno di tre anni dopo, il jihad delle tribù afghane costrinse l’armata inglese ad una sanguinosa ed umiliante ritirata. “Abbiamo fallito per la nostra ignoranza delle istituzioni e dei costumi di questa nazione” riconobbe uno dei militari britannici inviati sul posto. Si era ignorato il fatto che, nei suoi duemila anni di storia, il paese avesse goduto solo per brevissimi periodi di un’unità politica o amministrativa, di uno Stato degno di tale nome, e avesse invece sempre rappresentato “un caleidoscopio di principati tribali in competizione tra loro”, favorevoli ad accettare un’autorità esterna sempre e soltanto alle proprie condizioni. Si era ignorato, in altre parole, tutto il retroterra politico, sociale e culturale che caratterizzava la società afghana: l’impotenza dello Stato centrale, il settarismo endemico di clan e tribù, le divisioni etniche e linguistiche, lo scisma tra sunniti e sciiti. Un paese simile “poteva essere governato soltanto con grande abilità e capacità strategica”, due elementi che mancarono nella spedizione della corona inglese, efficacemente raccontata nel libro, e che a detta di Dalrymple sono mancati anche nella riedizione più recente dell’invasione dell’Afghanistan. Ecco allora perché il lavoro svolto dallo storico britannico costituisce una lettura preziosa: perché la storia si ripete, e conoscendola potremmo evitare di cadere negli stessi errori. “In entrambi i casi – scrive l’autore – gli invasori pensavano di venire, cambiare il regime e andarsene in un paio d’anni” e invece in ambedue i casi “non sono riusciti a evitare di restare invischiati in un conflitto assai più ampio”. Un conflitto che coinvolge, oggi come allora, anche le stesse questioni morali. Alla vigilia dell’invasione del 1839, Sir Claude Wade ammoniva: “Ritengo che non vi sia niente di più temibile o pericoloso dell’eccessiva fiducia con cui siamo fin troppo avvezzi a considerare eccellenti le nostre istituzioni, e l’impazienza che mostriamo nel volerle introdurre in terre nuove e inusitate. Simili interferenze condurranno sempre a dispute acrimoniose, se non a reazioni violente”. In aggiunta alla disarmante attualità, a rendere ancora più affascinante l’ultimo libro dello storico britannico è l’utilizzo di fonti afghane inedite risalenti alla metà dell’Ottocento, che ci consentono di vivere la prima guerra anglo-afghana anche dall’ottica degli occupati, e non solo degli occupanti, costituendo in questo modo uno specchio nel quale è possibile “vederci come gli altri ci vedono”.

 

IL RITORNO DI UN RE
William Dalrymple
Adelphi, 663 pp., 34 euro

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