Volodymyr Zelensky con Rishi Sunak (LaPresse)

Lettere

Un cessate il fuoco ora, in Ucraina, sarebbe un premio per l'aggressore

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Che zucconi siamo, qui nella valle del Po che sfocia nel mare Adriatico. Ubriachi di prosecco pensavamo che Giorgio Ferrara sarebbe venuto a svernare dalle nostre parti e che avremmo potuto continuare a dormicchiare sugli allori della Repubblica del pil. Non avevamo fatto i conti con questo uomo geniale caricato con proiettili di fuoco e passione. Quando è arrivato a Venezia non l’abbiamo più schiodato dal teatro Goldoni e da piazza San Marco. Era ossessionato da Venezia, che avrebbe voluto restituire con generosa impazienza agli allori del suo lontano passato teatrale, quando il Goldoni era il palcoscenico che dettava legge in Europa. “Lunghe teniture” predicava anche in cdA. “Facciamo come si fa a Parigi”. “Voglio grandi produzioni, come si fa a Vienna”. Le giuste mediazioni sono arrivate dopo amichevoli sportellate in consiglio di amministrazione, dove minacciava di dimettersi a ogni seduta, indifferente alle ragioni di noi poveri mortali condannati a far quadrare i conti che, col teatro di prosa sono sempre striminziti. Ma Giorgio non mollava, schiumava, s’incazzava e poi tirava fuori la sua leggendaria agendina, spessa come un volume delle pagine gialle, con i nomi degli amici teatranti di tutt’Europa. Fortunatamente per noi, molte battaglie le ha vinte lui e così, a Venezia, a Padova e a Treviso abbiamo rivisto Bob Wilson e Rimas Tuminas, la grande Jonasson in una edizione magnifica degli “Spettri” di Ibsen e il più celebre fra tutti, Peter Brook. Devo a Giorgio se è scoppiata una bella amicizia con Pierluigi Pizzi, il più raffinato e colto fra tutti i registi che io abbia mai conosciuto e che con noi decise di lavorare con i giovani della Scuola. Il comune piacere era andare a prendere un caffè su quelle terrazze che si affacciano su quello che lui definiva “il posto più bello del mondo”. Credo che il suo cruccio, nei due anni passati con noi, sia stato di non aver potuto rivedere sul palcoscenico la sua adorata Adriana, per quello che ho potuto constatare la donna più amata del mondo. Un giorno ci costrinse a invitare i giornalisti che scrivono sulle pagine della cultura dei giornali veneti: voglio recensioni, diceva con la sigaretta sempre accesa, anche cattivissime, ma ho bisogno di sapere cosa pensa la stampa del nostro lavoro. Abbiamo festeggiato a Venezia con una bottiglia di champagne (pagata di tasca nostra) divisa equamente fra di noi, il ritorno dello Stabile del Veneto tra i Teatri nazionali. Mi chiese se avessi mai dubitato del risultato positivo. “Certo che sì, gli risposi. Conosco le regole del rettilario”. “Uomo di poca fede” replicò. “Il bello vince sempre, ricordatelo”. Grazie Giorgio, ti vogliamo bene.
Giampiero Beltotto, presidente del Teatro Stabile del Veneto

Grazie a lei, presidente. Il funerale di Giorgio sarà oggi a Roma alle 12.30, al Teatro Argentina. Senza prosecco, ma con amore grande.



Al direttore - I miei ringraziamenti a Camillo Langone, Carmelo Caruso e Salvatore Merlo, che mi fanno quasi sempre sorridere.
Paola Bardazzi


 

Al direttore - “Meglio vivere sotto la peggiore delle dittature che essere morti”: così sentenziò Domenico De Masi nell’intervista televisiva a (uno sbigottito) Bruno Vespa. Lasciamo stare le sue citazioni sballate (attribuire a Freud la scoperta del disturbo psicotico “Folie à deux” per un professore universitario è imperdonabile). La verità è che chi fa il tifo per la resa di Kyiv non accetta le ragioni profonde della sua resistenza. Mi sia allora consentito ricordare al guru del neopacifismo pentastellato un piccolo episodio della storia delle idee. “Libertà o morte!”: era questa la parola d’ordine cantata e ricamata sulle bandiere durante la Rivoluzione francese. Nella “Fenomenologia dello spirito” (1807), opera molto citata e poco letta, Hegel la richiama per sottolineare che la libertà è una rischiosa conquista: la merita soltanto chi mette in gioco la propria vita e preferisce la morte alla sottomissione alla prepotenza altrui. E’ una decisiva prova del fuoco che divide gli uomini tra chi è capace di dominare e chi soltanto di obbedire. Merita invece di servire chi, per debolezza o codardia, baratta la libertà con la sopravvivenza. E’ questa, nella civiltà occidentale, una antica concezione: chi ha messo in gioco la propria vita ottiene il riconoscimento come signore; chi ha preferito conservarla a spese della propria libertà è invece il servo (da “servare”, piuttosto che da “servire”, secondo una etimologia tramandata dal diritto romano). Si rassegni dunque, prof. De Masi. Ci sono individui e popoli che, diversamente da lei, “meglio schiavi che morti” lo considerano un insulto alla dignità umana.
Michele Magno

Lo ha scritto benissimo ieri sul Foglio il nostro Vittorio Emanuele Parsi. L’opposizione vera non è tra guerra e pace ma tra chi impone la guerra agli altri e chi combatte per ristabilire la pace. E un cessate il fuoco ora, che fissi la situazione attuale, caro De Masi, costituirebbe un premio per l’aggressore e la sua violenza. Facile, no?

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