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L'analisi

Costringere la Russia a ritirarsi dall'Ucraina è l'unica via per ricostruire la pace 

Vittorio Emanuele Parsi

“Ok, la responsabilità della guerra è di Putin, ora andiamo avanti” è una frase che non si può sentire. Finché Mosca non ferma l’aggressione e si ritira, l’unico “avanti” dove andare è la linea del fronte

"Guerra e pace”. Un ottimo titolo per uno straordinario romanzo che racconta gli orrori della guerra e il suo diabolico fascino. Nel titolo è racchiusa l’opposizione fra il tempo ordinario e felice della pace dal quale gli uomini e le donne sono strappati per essere gettati nel baratro dello straordinario e tremendo tempo di guerra.

Non sfugge a nessuno quanto sia preferibile la pace alla guerra, ma dato che non si tratta di eventi naturali, indipendenti dal controllo umano, ma di condizioni che gli esseri umani costruiscono o distruggono, una volta usciti dall’ovvio omaggio alla pace e dalla altrettanto scontata maledizione della guerra, il tema diventa chiedersi in che modo si passa dallo stato di pace allo stato di guerra e viceversa. Individuare la responsabilità non sempre è facile, e in tanti casi della storia essa è collettiva o, per lo meno, è imputabile agli errori, agli azzardi, e alle deliberate volontà di una serie di attori. 

Dalla notte dei tempi, chi decide di scendere in guerra evoca “il suo buon diritto”, la legittima difesa – magari preventiva – l’impossibilità di fare altrimenti: lo fecero gli spartani dando inizio alla Guerra del Peloponneso contro Atene e la Lega attica, lo hanno fatto gli israeliani con la Guerra dei sei giorni nel 1967, e prima e dopo tantissimi altri. E nonostante la “pace cartaginese” imposta alla Germania a Parigi nel 1919, gli storici sanno bene che non furono esclusivamente tedesche o austro-ungariche le responsabilità di aver trascinato il mondo nella Prima guerra mondiale.

Esistono però situazioni in cui la responsabilità è chiara ed evidente. A parte qualche incolto pupazzo televisivo, nessuno si sognerebbe di dire che “Hitler non voleva la guerra”, ovvero non ci sono dubbi sul fatto che il Terzo Reich stesse preparando una guerra per l’assalto al potere mondiale, sperando di poter ottenere posizioni vantaggiose di partenza (Monaco 1938) prima di essere costretto a ricorrere alle armi dall’attiva opposizione delle sue vittime (Danzica 1939). I documenti ufficiali e segreti ritrovati negli archivi dopo la sconfitta nazista sono lì ad attestarlo da quasi ottant’anni. Il caso della guerra in corso è analogo: Vladimir Putin ha scelto deliberatamente e in assenza di qualunque “provocazione” di imporre lo stato di guerra al popolo ucraino. Perché la questione della responsabilità è tutta qui: qualcuno ha scelto la guerra e, così facendo, l’ha imposta a qualcun altro. Che ora è costretto nella condizione di guerra non dalla sua volontà, da un suo amore per la violenza, “dalla Nato e dai mercanti d’armi”, ma dalla volontà di chi l’ha aggredito. Di conseguenza, finché la volontà dell’aggressore non si modifica, fin tanto che chi ha imposto la guerra non cessa di farlo, la guerra non può finire. Mi sembra un ragionamento semplice, una constatazione fin troppo ovvia, che purtroppo occorre ribadire non nel nome del “partito unico bellicista”, ma in quello del buon senso, dell’onestà intellettuale e dell’etica pubblica. Eppure occorre ribadirlo continuamente, di fronte a scellerate, narcisistiche e disoneste alterazioni della realtà dei fatti che alimentano iniziative populiste come la raccolta di firme per bloccare l’invio di armi alla resistenza ucraina o la “staffetta della pace”: tutti ossequiosi omaggi a chi ha scelto e imposto ad altri la guerra – il macellaio Putin – che però vengono travisate per iniziative pacifiste. Roba che fa apparire dei galantuomini i “partigiani della pace” finanziati da Stalin ai tempi della Guerra fredda.

Ecco perché non si può sentir dire “va bene la responsabilità della guerra è di Putin, ma ora andiamo avanti”: per poter andare avanti occorre che chi ha scelto la guerra smetta di farla, cessi l’aggressione, ovvero si ritiri oltre i confini violati nel 2022, affinché diventi possibile la ricerca di una via negoziale e internazionalmente garantita e verificata per decidere la sorte dei territori sottratti con la forza già nel 2014. Finché la guerra di aggressione russa non smette di essere posta in atto, non si può proprio andare da nessuna altra parte che non sia quella della linea del fronte. E un cessate il fuoco che fissi la situazione attuale è inaccettabile perché costituirebbe un premio per l’aggressore, tanto più prezioso, immotivato e inaccettabile ora, che i russi manifestano gigantesche difficoltà e grande e motivata apprensione per l’annunciata controffensiva ucraina.

Il tour europeo di Volodymyr Zelensky ha dimostrato che gli alleati europei dell’Ucraina sono tutti sulla stessa linea: sostegno totale all’Ucraina (l’aggredito) in termini politici, economici e militari. Pressione totale sull’aggressore (la Russia) fin tanto che non cambierà il suo comportamento. Parigi, Londra e Berlino hanno anche accompagnato le loro dichiarazioni con nuovi importanti pacchetti di aiuti militari. Roma no, ma d’altronde Salvini se lo deve sopportare Giorgia Meloni (oltre che tutti noi) mica Olaf Scholz, e il Vaticano è oltre Tevere, mica al di là della Senna. Putin, dal canto suo, collabora attivamente a rafforzare la coalizione che sostiene l’Ucraina sia con le sue spacconate nucleari, sia con il suo ostinato rifiuto a intavolare qualunque seria trattativa, sia con una conduzione delle operazioni sul campo che è tanto inetta quanto criminale.

Ma l’opinione pubblica è invece sensibile a chi oppone la pace alla guerra, e quindi i “bellicisti” ai “pacifisti”, infischiandosene del diritto alla legittima difesa, del sacrosanto e incomprimibile diritto naturale (prima ancora che giuridico) di difendersi anche con la forza delle armi da chi, ricorrendo alla forza delle armi, ha distrutto la pace per conseguire obiettivi politici. Già, perché la guerra di aggressione non è un “fatto”, ma una “condotta”, un’azione frutto di una scelta politica. Il cui scopo finale non è “rompere la pace”, ma piegare con la violenza la volontà dell’avversario affinché si assoggetti alla volontà prevaricatrice. La rottura della pace non è il fine ultimo di questa guerra, ma lo strumento cui si decide di far ricorso per spezzare la resistenza politica della propria vittima. Mentre la guerra nella quale l’aggredito è costretto è una guerra di resistenza e di liberazione, che può cessare solo con la fine dell’aggressione e non certo con l’accettazione del sopruso e la resa all’aggressore: ed è triste che i vertici dell’Anpi non riescano a capirlo, così tradendo la memoria di quelli che tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 scelsero la via dell’onore e della montagna. Preservare quella memoria, soprattutto dei molti che diedero la loro vita per la libertà di tutti, è la sola ragione per cui l’Anpi esiste. Ma d’altronde non basta mettersi un fazzoletto al collo e marciare dietro un labaro per trasformare in partigiano chi partigiano non è e, forse, non avrebbe mai avuto il coraggio di essere.

L’opposizione vera non è quindi tra guerra e pace ma tra la guerra di aggressione e la guerra di resistenza, tra chi impone la guerra agli altri e chi deve combattere affinché la guerra finisca e la pace possa essere ristabilita. E per riuscirci ha bisogno di armi – che chiede a noi – e di soldati che ci mette lui. Essere contro la guerra non significa proprio un bel nulla e, di sicuro, non significa essere a favore della pace. Opporsi alla logica della guerra vuol dire opporsi all’aggressore e alla logica dell’aggressione e sostenere il diritto degli aggrediti a tornare a vivere in quella condizione di pace da cui l’aggressore li ha strappati.

E’ esattamente per impedire che a qualcuno possa venire in mente di deturpare la nostra vita democratica, e le istituzioni che la salvaguardano e la rendono possibile, che abbiamo delle Forze armate, le dotiamo di armi e le addestriamo. E’ proprio per dissuadere i nemici della società aperta e della democrazia che stringiamo reti di alleanze formali e interveniamo a sostegno di chi viene aggredito. Dovremmo sempre tenere molto bene in mente questo punto. Proprio perché l’Italia “ripudia la guerra come offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (articolo 11 della Costituzione), non possiamo esimerci dal concorrere alla lotta contro chi ancora pratica la guerra di aggressione e al sostegno dei popoli che ne sono incolpevoli vittime. E’ in questa accezione che sta il carattere “ontologicamente” difensivo del nostro apparato militare, a prescindere che la difesa si eserciti sui confini nazionali, su quelli europei o atlantici, o più in profondità e del tipo di armi che ci servono per esercitare il sacrosanto diritto all’autodifesa. E’ lo scopo per cui vengono impiegate che fa delle armi – di tutte le armi, dai giubbotti antiproiettile ai missili da crociera, dai caccia ai carri, dalle navi ai sottomarini – strumenti offensivi o difensivi.  

Quando diciamo che sono gli eserciti che “combattono le guerre” evochiamo due significati diversi e convergenti. Da un lato le Forze armate sono addestrate per combattere nel senso che ci consentono di evitare di soccombere di fronte a un’aggressione armata e quindi difendono il nostro modo di vivere, la nostra democrazia, la nostra patria. Dall’altro la semplice esistenza di Forze armate professionalmente addestrate, ben equipaggiate ed efficienti ci consente di combattere la prospettiva della guerra, di allontanarla: combattono la guerra come si combatte un cancro. Sono il rimedio alla guerra, tanto quanto medici, infermieri e terapie sono il rimedio contro il cancro.

Il ripristino della pace non può allora avvenire a danno di chi la guerra se l’è vista imporre e la pace non può mai coincidere con la resa dell’aggredito e l’impunità per l’aggressore. Se perdiamo di vista questo perdiamo qualunque possibilità di “combattere” la guerra, ovvero di continuare a edificare quella deterrenza nei confronti di chi ritiene, contro l’etica e contro la storia, che la guerra sia ancora uno strumento legittimo per modificare uno status quo che ritiene insoddisfacente. Dobbiamo sempre mantenere la limpida coscienza del carattere politico della guerra, del suo essere conseguenza e manifestazione della precisa volontà politica di un attore, per poterla contrastare. E contrastare la guerra significa opporsi a chi ha scelto di farla, imponendola agli altri. 

Costringere l’invasore russo a ritirarsi è la sola via seria, decente e possibile per ricostruire la pace e per difendere la democrazia ucraina sotto attacco, una democrazia che non potrebbe sopravvivere se venisse invece costretta a piegarsi a una resa umiliante. La destabilizzazione della democrazia ucraina era – e resta – uno degli obiettivi politici che il Cremlino intendeva ottenere con il ricorso alle armi. Le istituzioni democratiche dell’Ucraina sarebbero seriamente a rischio se, dopo una lunga e coraggiosa resistenza, dovessero cedere al tavolo di un armistizio quello che i russi non sono riusciti a ottenere con la forza. Concedere la vittoria a Putin a causa della nostra ignavia (che rischia di essere di gran lunga superiore al coraggio dimostrato dal popolo ucraino) metterebbe a rischio la stessa sopravvivenza delle nostre democrazie, minando i princìpi sui quali si fondano e che proclamano come universali, e alimentando quella cultura della fuga dalle proprie responsabilità che rappresenta la minaccia oggi forse più insidiosa per la difesa della libertà di ciascuno e ciascuna di noi.

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