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Armare l'Ucraina è l'unico modo per difendere l'occidente libero

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - “La pace non è assenza di guerra: è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia” (Spinoza, “Trattato teologico-politico”).
Michele Magno

 


 

Al direttore - Nell’intervista al Corriere (domenica 8 maggio) sul conflitto in Ucraina, Carlo De Benedetti sostiene che Biden intende fare la guerra alla Russia tramite l’Ucraina, lo dimostrerebbe il pacchetto di aiuti approvato dal Congresso: 33 miliardi di dollari di cui 20 in armi. E’ il caso quindi che gli europei stiano a distanza da questa storia. La resistenza ucraina per Cdb è “un danno per il mondo”. Egli auspica l’uscita degli Stati Uniti dalla Nato sostenendo che a guidarla potrebbero essere a quel punto gli europei che, finalmente, senza gli Stati Uniti, diverrebbero responsabili della propria sicurezza. In realtà Mosca raggiungerebbe così l’obiettivo perseguito per l’intero Dopoguerra, prima con l’Urss poi con Putin: un’Europa che rompa con gli Stati Uniti, una lacerazione tra i due pilastri dell’occidente. Insomma, un notabile della borghesia italiana come Cdb sostiene che gli ucraini combattono per conto degli Stati Uniti, gli unici  interessati a volere la guerra perché “fanno soldi a palate”. De Benedetti non considera in alcun modo che siano gli ucraini ad aver deciso di resistere e combattere contro l’invasore della loro terra. Non solo. La guerra in corso andrebbe chiusa  per Carlo De Benedetti con la resa degli ucraini e del loro presidente, concedendo alla Russia il Donbass, le città del litorale sul mar Nero fino probabilmente a Odessa, la Crimea, tutti i territori russofoni e russofili. Cdb lo chiama un compromesso. A me sembra un diktat. Quel che resterebbe della Ucraina verrebbe, in cambio di tali rinunce, garantito nella sua sicurezza dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Del tutto assente un giudizio sulla politica della Russia di Putin, una riflessione sui rischi di natura geopolitica che si stanno palesando  per l’Europa di fronte alla strategia imperiale di Putin. Non una considerazione del modo spregiudicato con cui la Russia si è mossa nell’ultimo decennio per ampliare la propria sfera di influenza e addirittura i propri confini territoriali. Né una censura degli atti riprovevoli con cui nel 2014 Mosca si impadronì della Crimea e sobillò il separatismo del Donbas. Al contrario, Cdb si permette di ironizzare sul timore verso la Russia  dei paesi baltici, paesi che hanno drammaticamente subito per circa 50 anni angherie e soprusi del regime sovietico. Questo il pensiero di un notabile della borghesia italiana che non nasconde di avere anche ambizioni intellettuali… Aprire una trattativa seria è indispensabile. Zelensky ancora in queste ore ha dichiarato la sua disponibilità. Disponibilità che si aggiunge all’esplicita dichiarazione già fatta nelle scorse settimane dal presidente ucraino circa il carattere neutrale dell’Ucraina del futuro. A tutto ciò dovrebbe corrispondere un gesto positivo da parte della Russia. Una tregua, un cessate il fuoco. Non si manifestano segnali in questa direzione. La verità è che una trattativa condotta in buona fede dovrebbe consentire di giungere a un compromesso onorevole. Forse è questo che Putin non vuole, un compromesso onorevole.  Provi a riflettere su questo, Carlo De Benedetti.
Umberto Ranieri

 

Consiglio di cuore all’ingegnere De Benedetti un articolo formidabile uscito ieri sul Washington Post a firma di Max Boot, che di entrature al Pentagono ne ha forse non meno di Cdb. Boot, grande esperto militare, prima ricorda come sta andando la guerra sul campo (“Kyiv afferma che più di 25.000 soldati russi sono stati uccisi; quella cifra potrebbe essere esagerata ma probabilmente non di molto. I rapporti open source confermano che la Russia ha perso più di 3.500 veicoli inclusi più di 600 carri armati, 121 aerei e nove navi militari, inclusa l’ammiraglia della flotta nel Mar Nero, e queste sono le peggiori perdite che la Russia ha subìto dalla Seconda guerra mondiale). Poi ricorda che effetto ha avuto la resistenza dell’Ucraina (“Lungi dal colpire l’occidente, Putin ha unito l’occidente contro di lui e le sue azioni hanno portato a un’impennata dell’attività militare della Nato nell’Europa orientale”). Infine fotografa il momento storico: “Se l’Ucraina potesse riportare i suoi confini vicino a dove si trovavano il 24 febbraio e se le sanzioni riuscissero a erodere l’economia russa sarebbe una tremenda vittoria per l’occidente e una terribile sconfitta per la Russia. Il discorso di Putin nel Giorno della vittoria – suggerisce Boot – potrebbe indicare che Putin sta cercando una via d’uscita, come suggerisce il ministro della Difesa britannico, ma ovviamente non c’è un’uscita facile dal disastro che ha creato”. Armare la resistenza ucraina non è una perdita di tempo ma è l’unico modo per evitare che Putin continui a fare quello che ha provato a fare il 24 febbraio: violare i confini dell’occidente libero. Viva il 25 aprile ucraino. 
 



Al direttore - I valzer linguistici di Giuseppe Conte, tra atlantismi “vecchi” e “nuovi” sembrano raccontare molto dello storico “atlantismo all’italiana”: non di collocazione ma di posizionamento, accomodabile e ritrattabile a seconda delle diverse stagioni, in un paese che fu davvero atlantista solo nei primi anni della Repubblica. Eppure, la nostra collocazione internazionale, il nostro essere linea di faglia tra est e ovest caratterizzò in modo fondamentale ogni aspetto della nostra storia repubblicana; compresa Tangentopoli, di cui in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario, e ciò che ne seguì. Il presidente Cossiga, uno dei pochi atlantisti convinti, aveva colto questo aspetto con una lungimiranza che purtroppo restò isolata. Non a caso amava riferirsi alla nostra Costituzione come “una piccola Yalta” e, alla vigilia della visita a Buckingham Palace, dichiarò all’Independent: “Due paesi sono spaccati da una cortina di ferro: la Germania sul piano territoriale e l’Italia politicamente, moralmente, ideologicamente. Io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente. Il crollo del Muro di Berlino è anche il crollo di un muro invisibile. Oltre alla Germania, anche noi siamo stati liberati e riunificati. Anche per noi la guerra è quasi finita”. Quello del presidente della Repubblica era un invito a tutto il sistema politico italiano: occorreva riformarsi radicalmente perché le nostre storture e assurdità non sarebbero più state condonate in ossequio alla guerra di resistenza tra blocchi e per via di una democrazia bloccata “nel suo punto più delicato”, ovvero l’alternanza. Ed era in particolare un invito al Partito comunista a farsi forza socialdemocratica occidentale e di governo, partecipe della possibile alternanza finalmente conquistata. Come andarono (o meglio crollarono) poi le cose nel ’92 è noto. Qualcuno potrebbe obiettare che già nel 1976 Berlinguer aveva dichiarato di sentirsi “più sicuro sotto l’ombrello della Nato”. Ciò che pochi ricordano, tuttavia, è che l’intervista (di Giampaolo Pansa) uscì il 15 giugno, a pochi giorni dalle elezioni, contemporaneamente sul Corriere e sull’Unità: sul quotidiano comunista proprio quel passaggio venne stralciato. Una mossa chiaramente elettoralistica e con ogni probabilità avvenuta col consenso del segretario del Pci (che si allontanerà davvero da Mosca solo negli anni 80). Certamente un “punto di riferimento dei progressisti”, ma non un atlantista. D’altra parte, era l’Italia delle “tre politiche estere”: quella del Pci, quella mediterranea e filoaraba degli Andreotti e dei Craxi (cui va riconosciuto di averci saputo proiettare come paese leader del Mediterraneo) e quella “istituzionalmente” euro-atlantica, cui davano sostanza effettiva pochi statisti, come Spadolini. Superata la fase filoamericana a cavallo tra gli anni 90 e 2000, nemmeno la Seconda Repubblica seppe offrire forme di atlantismo coerente, e in generale una visione che superasse il corto raggio. Il Berlusconi amico fraterno di Putin che da vent’anni ripeteva la favola stantia dello “spirito di Pratica di Mare”; il Prodi filorusso, la dipendenza energetica accresciuta anche sotto gli ultimi governi a guida Pd. La nostra collocazione internazionale non è solo l’effetto di scelte politiche interne: è stata e continua a essere anche una matrice della politica interna, una sorta di costituzione non scritta. In questo senso l’atlantismo non può essere mero posizionamento: consiste nella difesa e nel rafforzamento del modello della democrazia liberale. Contro relativismi, nichilismi e massimalismi. Contro il vero pensiero semplicista e binario di chi non riconosce proporzionalità e non vedendo “buoni” invita a chiudersi nell’ignavia delle soluzioni impossibili. Contro nemici interni ed esterni. La Patria che siamo chiamati a difendere nel Ventunesimo secolo non è un’espressione geografica: è la democrazia liberale.
Stefano Leanza

 

Ha scritto bene sul Corriere della Sera Antonio Polito, quando ha notato che un nuovo “fattore Z” diventerà la discriminante della politica italiana, come il “fattore K” lo fu durante la Guerra fredda. “Allora – ha scritto Polito – una conventio ad excludendum, implicita ma ferrea, impediva che al governo potesse mai andare il Pci, legato a Mosca e al blocco sovietico. Oggi un’analoga pregiudiziale potrebbe riguardare quelle forze che non sono disposte a schierarsi nella coalizione anti Putin, o che addirittura aiutano più o meno apertamente l’autocrate di Mosca”. Rispetto alle scelte future dei partiti, il tema politico è molto semplice: si può difendere o no la democrazia liberale con una mano legata dietro la schiena? Conte dice di sì. Il Pd per fortuna dice di no. Viva baio-Letta

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