Le 4 sfide del governo per dare senso a una storia che un senso ce l'avrebbe

Le lettere al direttore del 29 agosto 2020

Al direttore - Il modello Messi è un’intuizione molto suggestiva e certamente in un paese malato già da prima della pandemia è sicuramente più importante dell’utilizzo del Mes. Perché questo modello presupporrebbe una visione di insieme dell’Italia e di conseguenza un cambiamento radicale di classe dirigente all’altezza della sfida. Ma non è questo l’oggetto del suo editoriale. Piuttosto mi piacerebbe spingere più in là il suo ragionamento sul modello Messi. In effetti, di quale Messi stiamo parlando? Della “Pulga” tredicenne su cui i blaugrana hanno puntato, investito, che hanno protetto e curato, facendolo diventare il più forte giocatore del mondo e venendo ripagati con dieci scudetti, otto Supercoppe di Spagna, sei Coppe di Spagna, quattro Champions League, tre Mondiali per club? O del trentatreenne che ha già vinto tutto quello che poteva vincere e oggi cerca nuovi stimoli e magari anche nuovi lidi dove pagare meno tasse? In realtà in Italia da quattro anni si sta costruendo una storia che potrebbe essere assimilata al modello – giovane – Messi, e incredibilmente è una storia meridionale. Parlo del Polo tecnologico della Federico II di Napoli, per la precisione a San Giovanni a Teduccio, periferia est della città. Che non solo ha richiamato le più importanti Tech corporation come Apple, Cisco, Accenture, Deloitte, a investire in academy, hub e acceleratori di impresa, ma sta attraendo capitale umano internazionale che proprio a Napoli ha deciso di spendere parte della propria formazione. Quindi molto bene attrarre il maturo Messi con politiche di fiscalità di vantaggio, allo stesso modo non perdiamo di vista i giovani Messi su cui si sta investendo da tempo.

Francesco Nicodemo

 

Al direttore - L’ottimo Claudio Velardi ci ha ricordato, su queste colonne, che in questo mare siamo e qui bisogna navigare: tutto il resto, ossia il No al taglio dei parlamentari, è moralismo, hegeliana pappa del cuore, testimonianza impotente, masochismo suicida. Vero, ma per evitare il rischio di un naufragio nelle acque tempestose del referendum ci vorrebbero un veliero agile, un nocchiero esperto, un portolano aggiornato, l’approdo in un porto sicuro. Pensando a quell’equipaggio confuso e indisciplinato che staziona sulla tolda di comando del Pd, si tratta di condizioni attualmente piuttosto aleatorie. Ma che importa, sembra sostenere il mio amico Claudio, l’importante è sporcarsi le mani, perché per lui il riformismo è questo. E’ cioè una combinazione di quell’audacia tattica e del realismo politico che deve caratterizzare un partito di governo. Lasciamo stare il fatto che, in nome di quel riformismo, il Pd ha accettato quota 100, i decreti “Sicurezza”, l’abolizione della prescrizione, il mancato ricorso al Mes e via discorrendo. Ingenuo come sono, ho sempre creduto che una forza riformista si definisce anzitutto grazie al suo bagaglio di idee, la sua capacità di proposta, il costume dei suoi gruppi dirigenti, e non perché considera i programmi alla stregua della promozione pubblicitaria di un prodotto, a cui non si chiede tanto di essere credibile, ma gradevole. Ora, ecco il punto, può una forza riformista vivere senza princìpi e senza un sistema interpretativo della società che orienti le sue grandi scelte? Forse così può anche tirare a campare, sapendo però che la sua azione, come diventa propaganda vuota se non tiene conto della realtà effettuale, senza un chiaro progetto di cambiamento apre inevitabilmente le porte all’opportunismo più disinvolto: per cui si può scoprire, in base alle convenienze del momento, favorevole o contraria a Camere più snelle, proporzionalista o maggioritaria, ambientalista o industrialista, federalista o centralista, liberista o statalista. Il dovere del riformismo è quello di fare le riforme, non di stare a Palazzo Chigi a prescindere, come direbbe Totò. Altrimenti esso indica non più una cultura politica, ma un recapito. Diventa un logo che certifica l’ascendenza famigliare: racconta da dove si viene, non dove si vuole andare. In altre parole, diventa il significante mimetico di un significato di segno contrario: la rassegnazione allo stato di cose esistente, la rinuncia alla ricerca di un’alternativa all’alleanza con i Cinque stelle, che non saranno la “nuova casta”, come l’ha chiamata Carlo Calenda, ma sulla cui affidabilità democratica non scommetterei un euro (lo vedremo, azzardo una previsione, dopo gli scrutini regionali). E allora mi sia consentito, in conclusione, di citare un noto pensiero proprio di una eminente figura del riformismo europeo, Jacques Delors. Un pensiero su cui, a mio avviso, dovrebbero riflettere tutti coloro che hanno a cuore le sorti della sinistra italiana: “Da Pierre Mendès France ho imparato una grande lezione: è meglio perdere un’elezione che perdere l’anima. Un’elezione si può rivincere dopo cinque anni, che vuole che sia? Ma se si perde la bussola, o si perde l’anima, per ritrovarle ci vogliono generazioni”. Spero, beninteso, che nessuno vorrà tacciare l’ex primo ministro di François Mitterrand di essere un’anima bella.

Michele Magno

 

Caro Magno, prima o poi si convincerà anche lei: il governo che abbiamo di fronte è evidentemente un governo sbagliato nato per una causa giusta che ha il merito non di aver fatto emergere il meglio del riformismo italiano ma di aver archiviato ogni tentazione di sputare sull’Europa. E se posso sui cinque problemi che segnala non sarei così pessimista: quota 100 si esaurirà tra un anno, i decreti “Sicurezza” di Salvini non sono mai stati usati, il Mes verrà secondo me attivato dopo le regionali e la prescrizione, certo, è un disastro, ma non si può dire che il giustizialismo sia nato con questo governo, purtroppo. Un abbraccio.

Di più su questi argomenti: