Il governo più severo dei tecnici. E quello che serve al sud (non leggi speciali)

Al direttore - Quindi anche il lockdown dovevano farlo salvo intese?

Giuseppe De Filippi

 

Il governo, così abbiamo scoperto dai documenti di quei giorni, sul lockdown ha fatto dunque scelte più severe di quelle suggerite dai tecnici. Si può essere critici rispetto a questa scelta (oppure si potrebbe riconoscere che è stato fatto tutto ciò che era possibile fare per proteggere il paese da una pandemia). Ma lo si può fare a patto che le critiche non arrivino da chi per mesi, trescando con la cultura negazionista e fintamente libertaria, ha chiesto alla politica di non essere ostaggio della “casta” dei tecnici e dei virologi. Meno cialtronaggine, grazie.

 


 

Al direttore - Ho avuto il piacere di leggere sulle pagine del Foglio del 27 luglio scorso il “processo” che Marco Bentivogli, di cui da tempo seguo le riflessioni, ha intentato verso le classi dirigenti. L’analisi sulle disfunzioni del paese e sui princìpi per combatterle (quante volte parla di “meritocrazia” e “conoscenza”?) coincide quasi totalmente con la visione che, da presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria Veneto, ho provato a portare anche alla presidenza dei Giovani di Confindustria nazionale, la quale invece ha deciso, però, di prendere un’altra strada. Bentivogli parla di un costante “ricatto del breve termine” che la classe dirigente (e anche quella votante) dovrebbe rifuggire. Concordo, perché credo che occuparsi dell’Italia di oggi, quella che deve uscire dalle proprie contingenti emergenze, significa occuparsi in primis di futuro. Ovvero di dare alle persone, alle famiglie e alle comunità una prospettiva nuova. E quindi favorire (sì, favorire, perché il politically correct dell’uno vale uno è spesso solo un’operazione cosmetica per garantire lo status quo) persone oggettivamente discriminate come le giovani donne che oggi sono di fatto ostacolate nel loro sacrosanto diritto di far carriera e crearsi una famiglia. Ma allora perché non far finalmente buon uso di risorse pubbliche, magari con un drastico taglio del cuneo fiscale ad hoc per le under 35, che possa correggere le distorsioni del sistema attuale? Questo è un modo per andare contromano rispetto alla retorica del “si è sempre fatto così”.

Andare contromano significa, ad esempio, rifiutare la banalizzazione di chi afferma che sia finita l’èra dello smart working e si debba tornare a “lavorare”. Ma se invece di rifugiarci nella cieca nostalgia, non sfruttassimo l’occasione per andare più in profondità? Ad esempio, recuperando il senso della parola smart: che non è “da casa”, ma è “intelligente/sveglio”. Perché lo smart working, se regolato come si deve (qui le associazioni di categoria devono giocare un ruolo decisivo) può essere una soluzione, per talune professioni, per lavorare in maniera più produttiva e permettere alle persone di coniugare vita e lavoro, oltre a razionalizzare gli spostamenti. Ma smart working significa soprattutto prendersi le proprie responsabilità, termine tabù. Perché responsabilità vuol dire misurare e misurarsi, vuol dire stabilire dei criteri e, in definitiva, trovare un modo per dare un significato alla parola merito. E merito è sinonimo di futuro perché è l’esatto contrario del “si è sempre fatto così”.

Ma nel dibattito sul futuro: dove sono i giovani? Nei partiti, nelle audizioni, nelle università o in tv, dove si parla di crisi demografica, di debito, di educazione, di lavoro… dove sono? Non ci sono! Non ci sono neanche nei convegni in cui si parla di giovani! Ma in fondo, chi li seleziona? Qualcuno che vuole davvero sentirsi dire che bisogna cambiare? Allora, a partire dal “processo” di Bentivogli, perché un quotidiano come questo, diretto inauditamente da un Millennial, non può diventare il centro di un dibattito in cui anche i giovani hanno voce in capitolo?

Eugenio Calearo Ciman, presidente Giovani imprenditori Confindustria Veneto

 


 

Al direttore - Lectio magistralis del più illustre tra i fondatori del Pci ai suoi smemorati allievi di ieri e di oggi: “Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera e interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali” (Antonio Gramsci, “Il grido del popolo”, aprile 1916). La più efficace “fiscalità di vantaggio”, in altri termini, è quella di un sud che può contare su uno stato impegnato nelle sue funzioni essenziali, e solo in esse: amministrare correttamente la giustizia, garantire la sicurezza dei cittadini, fornire servizi sanitari ed educativi decenti, infrastrutturare il territorio, dotarsi di quelle capacità progettuali che sono indispensabili per utilizzare con profitto i finanziamenti europei nei campi dell’innovazione tecnologica e del risanamento urbano.

Michele Magno

 

Parole sante. Non servono leggi speciali. Servono tasse più basse, burocrazia più snella, stato più efficiente, sostegno alle imprese, giustizia più veloce, paese più credibile, sindacati meno egemoni, classe più dirigente che digerente e capacità di attrarre capitali dall’estero. Ciò che può far crescere il Mezzogiorno è ciò che può far crescere l’Italia.

 


 

Correzione. Sul Foglio di ieri è stato scritto erroneamente che Stefano Caldoro, candidato governatore del centrodestra in Campania, è espressione di Fratelli d’Italia. L’egemonia di Giorgia Meloni è poderosa, ma non al punto da essere riuscita a conquistare anche vecchi gioielli del socialismo, che per il momento restano saldamente ancorati alla corte del Cav.

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