L'élite e il grillismo. Un sogno prova a spiegarci qualcosa sul 5 marzo

Al direttore - E così, anche in questo 2018 la Juve ha vinto lo scudetto. L’Inter è crollata a fine anno (più o meno a fine legislatura) e il Napoli a marzo, più o meno quando si è formato il nuovo governo. Sembrava un risultato irraggiungibile e invece l’immarcescibile Silvio ha tirato fuori dal cappello uno dei suoi conigli migliori. La maggioranza appare sufficientemente solida tra il Pd renziano e la nuova creatura berlusconiana che unifica Forza Italia e la parte governista della Lega, a guida del presidente del Senato, Maroni. Col senno di poi era ovvio, dove trovare i 40-50 parlamentari che mancavano per una maggioranza Pd-FI? Non bastavano il manipolo di quasi-battitori-liberi che non gradivano l’idea di avere buttato i quattrini spesi nella campagna elettorale. La Lega era il bacino più prossimo e consistente in cui racimolare i numeri necessari a governare con una certa tranquillità. Col senno di poi si possono leggere così i silenzi di Zaia, la spinta a ricandidare un Bossi sempre critico di Salvini, la ricomposizione di FI con Tosi e, soprattutto, la rinuncia di Maroni alla regione Lombardia. Le continue esternazioni di Salvini riguardo la leadership del centrodestra sono state un tentativo vano, sempre col senno di poi, di levare al Cavaliere il ruolo di mazziere, punteggiato da continue piccole schermaglie di accelerazioni e ricomposizioni. Come le provocazioni di completa abolizione della legge Fornero, l’eliminazione dell’obbligo dei vaccini, la riapertura delle case chiuse, ecc. Proposte fuori dai pochi punti di programma comune, tentativo di prendere con il consenso elettorale il pallino della coalizione. Anche il candidato premier proposto da Berlusconi, ovvero – driiin! Cos’era? Sono già le 7! E siamo ancora a gennaio! Ecco, a mangiare pesante… Accendo la radio e il notabile di turno sta discettando sull’ingovernabilità che ci attende, è certo un governo del presidente con il compito di riscrivere la legge elettorale per tornare subito al voto. Era solo un incubo, accidenti. Ma allora forse non tutto è perduto. Forse l’Inter ce la può fare. #amala.

Stefano Quintarelli

 

I sogni, diceva un vecchio saggio, aiutano a correggere i dettagli che non tornano.

 

Al direttore - Poiché anche Silvio Berlusconi sembra essersi convertito al vincolo di mandato, mi consenta di tornare sull’argomento richiamando la tesi di chi ne è stato il più autorevole teorico novecentesco, Hans Kelsen. Strenuo difensore della Repubblica di Weimar (1919-1933) anche quando sembrava imminente il suo collasso, il grande giurista praghese finì col colpire al cuore le stesse fondamenta della democrazia pluralista. Secondo il vate della dottrina pura del diritto, “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, organi della volontà dello Stato e intermediari fra questo e gli individui, con la funzione di selezionare la classe dirigente e rappresentare i bisogni della società” (“Essenza e valore della democrazia”, 1920-1921). Il ruolo del parlamentare viene così declassato da rappresentante della nazione a funzionario di partito. Il Parlamento kelseniano, in altre parole, è un organo tecnico di composizione della volontà dei partiti politici. Questa visione lo spinge ad avanzare un’ipotesi eversiva: “Ci si potrebbe accostare all’idea di non costringere i partiti a mandare in Parlamento un certo numero, proporzionale alla loro forza di deputati individualmente determinati, che – sempre gli stessi – partecipino alla decisione di ogni più disparata questione, ma di lasciare a essi la possibilità di delegare, a seconda delle esigenze connesse con la discussione e la deliberazione delle varie leggi, degli esperti scelti nel proprio seno, i quali partecipino di volta in volta alla decisione col numero di voti spettanti al partito secondo la proporzionale” (“Il problema del parlamentarismo”, 1925). Questa ipotesi ha un inevitabile corollario: poiché la funzione di un deputato è subordinata al suo rapporto fiduciario col partito, ne discende che egli deve decadere quando cessa di appartenere alla lista nella quale si è presentato. Si può dire, in conclusione, che Kelsen aveva visto giusto quando ravvisava nell’allargamento del suffragio e nei partiti di massa le cause principali della trasformazione del sistema parlamentare. Non può dirsi altrettanto, però, quando sacrifica il libero mandato sull’altare della ineluttabile incorporazione dei partiti nella vita statale. Infatti, può il mediatore (il partito) sostituire il mediato (il rappresentante e, insieme, il rappresentato)? Se la risposta è sì, allora valgono le pagine di Carl Schmitt sul principio d’identità come base di legittimazione dei regimi totalitari, e l’inquietante conclusione cui perviene: “In particolare, una dittatura è possibile solo su un fondamento democratico” (“Dottrina della Costituzione”, 1928). Se invece la risposta è no, perché significherebbe la resa alle forme più estreme di populismo, ogni stravolgimento dell’articolo 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) va respinto con estrema fermezza. Del resto, benché mutuato dall’articolo 41 dello Statuto Albertino (1848), non per questo i suoi estensori erano ignari che la libertà del parlamentare doveva fare i conti con una società solcata da divisioni sociali e fratture territoriali profonde, e che i partiti di massa si erano ormai affermati come i principali collettori del consenso popolare. Nel 1946 (quando fu licenziato dalla seconda Sottocommissione), inoltre, era del tutto chiaro che la disciplina di partito poteva condizionare la condotta del singolo parlamentare, ma non doveva mettere in discussione la sua autonomia. Lo ha ribadito nel 1964 una memorabile sentenza della Consulta (relativa alla controversa nazionalizzazione dell’energia elettrica), laddove recita: “Il divieto di mandato imperativo comporta che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Nessuna norma: è chiaro?

Michele Magno

 

Chiarissimo. Anche se c’è una piccola postilla da aggiungere. La differenza tra un politico con la testa sulle spalle e uno senza testa sulle spalle è questa: il primo può proporre cose pericolose che può permettersi di non fare, il secondo può proporre cose pericolose che non può permettersi di non fare. Suona bene, no?

 

Al direttore - Siamo in regime di par condicio, tra quaranta giorni si vota. Da ora, da quando scrivo, non passeranno che 40 giorni. Il fatto certo è che c’hanno fregato le elezioni. Ci invitano a partecipare: alla mossa ci sono più di cento cavalli, la gara si svolgerà in modalità combinata. Avremo le sfide: un terzo dei seggi assegnati con il metodo maggioritario. Di fianco avremo la gara dei brand. Un confronto quantitativo. La costruzione dei mucchietti di eletti. Ma la campagna passerà in un baleno. Speriamo che il buon tempo tenga, che l’Isis stia ferma un po’, che sia sospeso l’accanimento nei confronti delle donne, perché la cronaca ci mette un attimo a mangiarsi i distinguo degli intervistati. Io vengo da un altro mondo, sono invecchiato in un paese dove i voti erano splendide occasioni per ripassare le amicizie, le appartenenze, le comparazioni. Perfino la grafica che nel mondo di oggi si è fatta elegante non trova di meglio che un simbolo, un nome. Ricordo che nemmeno molti anni fa si cominciava con le affissioni sei metri per tre. Alcune ridicole, altre intelligenti, ogni tanto persino belle e memorabili. Ricordo un monocromo verde con la base line che recitava: “Questa è un’idea rossa”. Era del Pci. Poi si procedeva casa per casa. Programmi, foto, istruzioni per il voto. Una volta chiesi ad uno scrittore di prestare al candidato l’arte della scrittura. Una lettera a Giulia, una bambina, a cui il candidato sindaco spiegava perché lo faceva e cosa poteva capitare di sentire in giro. Diffusione porta a porta. Un’altra volta fingemmo un quotidiano free press che all’alba trovavi nei bar. “Vota Antonio, vota Antonio” è stata nella storia del nostro paese un’arte, un mestiere, comunque una stagione. Durava circa quattro mesi compreso lo spazio regolato da disposizioni di legge. Va bene la democrazia dei nostri giorni sporca meno, forse spende anche meno. Ha rinunciato alla fanteria. Ora vola: vola nei salotti, ha spesso il fondotinta, è pacata e sguaiata. Dipende dal format. Una volta si suonava il campanello, si salutavano gli emigranti che tornavano per votare, si scendeva a sera per il comizio di Terracini. E’ vero che allora si campava di meno, vinceva sempre la Dc, la sinistra faceva dei balzi, lasciava che il risultato s’intravedesse, il sud sembrava liberarsi dalle pratiche clientelari, poi l’effetto svolta ripiegava, tornava a marcare il passo. L’Italia tornava lì da dove non era mai riuscita a partire. Eppure la campagna elettorale entrava nella vita di quei giorni, vi si leggevano i tratti distintivi, le speranze spezzettate nei risultati, nel costume di un paese che aveva se non altro una partecipazione al voto numerosa, invidiabile. Ora il tempo sfugge. Eppur bisogna. L’élite osserva preoccupata e per strada ci sono solo le réclame dei balocchi. Non so a voi ma a me manca qualcosa, forse va bene così.

Guelfo Guelfi

 

Sul suo “l’élite osserva preoccupata” – dopo aver visto il modo serio con cui diverse testate ieri hanno scelto di descrivere il programma del Movimento 5 stelle, come se questo fosse offerto da un partito perfettamente normale e non da un partito teleguidato in modo opaco dal capo di una srl promotrice di una truffa politica chiama democrazia diretta – avrei qualcosa da obiettare: l’élite non osserva preoccupata quello che succede, l’élite, o almeno un pezzo importante di essa, osserva compiaciuta.

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