Contro i populisti giustizialisti

Dino Cofrancesco

Tocqueville e il moralismo politico dei Cinque stelle. “Quanti delitti” in nome dell’onestà-tà-tà

Almeno fino a qualche tempo fa, non c’era un classico del pensiero politico più apprezzato e citato di Alexis de Tocqueville, il principe del liberalismo ottocentesco. Persino studiosi come il compianto Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, lontanissimi dal mondo di F.A. von Hayek e di Raymond Aron, non perdevano occasione per ricordarlo. Avrebbero fatto bene a citarlo meno e ad approfondirne di più le idee. La lettura della Democrazia in America, infatti, avrebbe potuto procurare a entrambi uno choc benefico: rendendoli consapevoli che la loro political culture era quella di un mondo non ancora sfiorato dalla secolarizzazione del conflitto politico e sociale ovvero non ancora edotto che i valori e gli interessi in competizione, nella lotta per il potere, stanno tutti sullo stesso piano e che, a fare la differenza, non sono i valori e gli interessi in quanto tali ma il rispetto delle “regole del gioco”.

  

Vale la pena riportare per intero la pagina di Tocqueville: “I repubblicani negli Stati Uniti apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono i diritti. Essi professano l’opinione che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti è il regno tranquillo della maggioranza. La maggioranza, dopo che ha avuto il tempo di riconoscersi e di constatare la propria esistenza, diviene la fonte comune dei poteri. Ma la maggioranza, di per sé stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l’umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti. La maggioranza riconosce queste due barriere e, se le capita di superarle, è perché essa ha delle passioni, come ogni uomo, e perché, come lui, essa può fare il male pur discernendo il bene. Ma, in Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che si fanno garanti e interpreti della maggioranza. Non è il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo felice, distinzione che permette di agire in nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole. Il governo repubblicano del resto è il solo, al quale si debba riconoscere il diritto di fare tutto, e che possa disprezzare ciò che gli uomini hanno fino ad ora rispettato, dalle più alte leggi della morale fino alle elementari regole del senso comune”.

  

Sennonché come si spiegano storicamente le “strane scoperte” fatte dall’Europa? La risposta si trova nella “sacralizzazione della politica”, nello stile di pensiero che attribuisce ai pastori dell’uman gregge il compito di difenderlo dal Male radicale sempre in agguato, di cambiare i costumi attraverso le leggi, di instaurare il regno della Giustizia e della Virtù. Dalle crociate cristiane contro gli eretici al progetto illuministico della “Grande Nation” di liberare i popoli europei dalla tirannide della tradizione e della superstizione: è sempre all’opera un disegno di redenzione collettiva affidato a “coloro che sanno quale sia il vero bene del popolo” e che ritengono la loro guida temporanea, in attesa che il demos si svegli e prenda coscienza dei suoi diritti.

 

Grazie al fascismo – e soprattutto per impulso del Partito d’Azione che ne fu l’avversario più implacabile, come capita a movimenti uguali e contrari nati dalla stessa temperie spirituale – il processo di secolarizzazione avviato in Italia nel periodo giolittiano, in cui il rispettabile conservatorismo liberale di un Sidney Sonnino si contrapponeva all’altrettanto rispettabile liberalismo sociale dello statista di Dronero, venne bruscamente interrotto.

  

Come ha scritto un grande filosofo, Augusto Del Noce: “Per corrispondere all’unità dell’antifascismo bisognava costruire un concetto di fascismo in cui si ravvisasse il ‘male radicale’ del secolo XX o meglio il male in cui si riassumevano i mali parziali di tutti i secoli dell’età moderna, così che la lotta dovesse continuare dopo la fine della guerra, per estirparne le radici. Era il passaggio dall’antifascismo al mito antifascista”.

  

Se si leggono le riviste e i giornali di sinistra (liberale, socialista, cattolica) della Prima Repubblica balza agli occhi un dato comune, troppo spesso sottovalutato: l’eticizzazione radicale dello scontro politico. Criticare pesantemente i partiti concorrenti, giudicare negativamente i loro programmi, ricorrere talora ai colpi bassi, tutto questo è normale e fisiologico e rientra nella normale dialettica democratica. Winston Churchill e Harold Macmillan non piacevano agli elettori di Clement Attlee e di Harold Wilson ma il conservatorismo dei primi non fu mai, per i secondi, motivo di delegittimazione morale e di squalifica culturale. Destra e sinistra venivano visti un po’ come la sistole e la diastole di un apparato cardiaco ben funzionante non come la guerra degli angeli contro i demoni. 

  

Nell’Italia della Resistenza e dell’antifascismo si afferma una assai diversa political culture. E non tanto per opera dei comunisti – il cui odio per il nemico di classe capitalista, nel nostro paese e altrove, era una passione fredda e per così dire ideologicamente obbligata – quanto per opera di una democrazia liberale e socialista sfilacciata e senza confini a sinistra (pas d’ennemis à gauche). Per questa variegata famille spirituelle (più forte nella repubblica delle lettere che alle urne), il metodo democratico del “contare le teste” non doveva servire a far conoscere ciò di cui la gente comune abbisogna e i provvedimenti che chiede alle autorità (la democrazia come onesta registrazione degli interessi e dei valori in gioco) ma a educare gli uomini, a renderli migliori, a inculcare in essi il senso di garanzie della libertà non disgiungibili dalla giustizia sociale (la democrazia come redenzione morale collettiva). Una concezione romantica e mazziniana della democrazia, insomma, con la differenza che nella mente di Mazzini tale concezione era funzionale alla costruzione di una comunità politica – lo Stato nazionale – che non poteva venire alla luce se gli italiani non si sentivano figli di una stessa patria “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, si sangue e di cor” mentre, nel secondo Dopoguerra, si risolveva in una divisione tra eletti e reprobi volta a perpetuare una “guerra civile”, dove i reprobi non erano più i fascisti (che la Costituzione metteva fuori legge) ma le classi e i ceti che perseguivano solo il proprio “particulare”.

 

Mario Pannunzio e Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei, Alessandro Galante Garrone e Norberto Bobbio potevano dissentire su varie questioni – è noto, ad esempio, che il maniacale anticlericalismo di Rossi non piaceva a Parri, attento ai fermenti che agitavano il mondo cattolico e in questo più lungimirante dell’amico col quale aveva fondato L’Astrolabio – ma su un punto concordavano tutti: che il nemico del progresso sociale in Italia fosse il centrismo. “Centrismo”, scriveva Parri nel 1967, “vuol dire stabilizzazione e consolidamento di un sistema capitalista, monopolista, produttivista, consumista, largamente parassitario, che scivola come un over-craft su cuscini di conformismo e di neo-clericalismo parrocchiale”. In quest’ottica, Confindustria e parrocchie, Scelba e Piccioni, la tv di Ettore Bernabei e il giornalismo di Giovanni Ansaldo e di Indro Montanelli, l’anticomunismo e il qualunquismo, l’Università tradizionale e la scuola gentiliana, i codici di polizia di Rocco: erano tutte manifestazioni di un’Italia arretrata, provinciale, di cui ci si doveva solo vergognare. La “grande divisione” della sinistra non comunista passava tra quanti delusi dal centrosinistra che non aveva “modernizzato” il paese, guardavano con interesse al Pci, auspicandone una decisa conversione alla democrazia occidentale e quanti invece, non volevano rompere ogni rapporto con la Dc, nella speranza che accordi di governo su “equilibri più avanzati” portassero alla scissione del partito cattolico e alla fuoruscita della sua destra – che, in tal modo, avrebbe raggiunto missini e monarchici ponendosi definitivamente fuori gioco.

  

In questa lotta contro il centrismo, visto spesso come il cavallo di Troia di un fascismo non finito col 25 aprile, richiamarsi alle lombardiane “riforme di struttura”, auspicare una efficace programmazione economica di tipo socialdemocratico (anche se il termine “socialdemocratico” era tabù ricordando, per molte componenti dell’“arcipelago dei virtuosi”, subdole forme di neocapitalismo), battersi per la nazionalizzazione dell’energia elettrica e per l’attuazione delle regioni – iscritta nella Costituzione ma saggiamente rinviata dai governi centristi, consci delle enormi spese pubbliche che avrebbe comportato – non rientravano in una competizione laica, in cui opinioni e misure di politica economica alternative erano disposte a farsi giudicare dalle ricadute pratiche che la vittoria delle une o delle altre avrebbero avuto sulla società civile: diventavano, invece, emblemi di una guerra di religione, comodi segni di identificazione del “nemico del popolo” – contrario per i suoi biechi, inconfessabili, interessi a sottrarre il settore elettrico alle industrie private. 

  

Ricordo bene che quando nel febbraio 1972 i liberali tornarono al governo con Andreotti e a Malagodi venne affidato il ministero del Tesoro, l’evento non venne accolto come un normale avvicendamento istituzionale – determinato dalla crudele legge dei numeri nelle due Camere – ma come un passo indietro, un arresto della marcia fino ad allora difficoltosa ma costante sulla via di una democrazia sostanziale contrapposta alla democrazia formale.

  

E’ una storia, questa, che sta ormai alle nostre spalle ma la concezione distorta della democrazia liberale, che come s’è visto ha una storia antica, continua a produrre i suoi effetti perversi, impedendo quella secolarizzazione del conflitto politico che rimane una piaga più incurabile di quella dell’omerico Filottete. Oggi, però, la sacralizzazione della politica sembra essersi liberata da sovrastrutture ideologiche e bandiere, che hanno scaldato i cuori di quella sinistra (postcomunista e non) che seguita imperterrita ad agitare il fantasma fascista e a denunciare quello che Umberto Eco definiva l’Ur-Faschismus, la maledizione eterna dell’Occidente.

  

L’impoverimento simbolico che caratterizza le contemporanee società di massa si è fatto sentire anche nelle nuove forme assunte dalla immarcescibile tentazione italica di dividere gli uomini in eletti e dannati, onesti e disonesti. Roberta Lombardi, esponente del M5s, tempo fa ha invitato a prendere atto che “sono 30 anni che fascismo e comunismo in Italia non esistono più”. E, quanto al primo, ha dichiarato che “prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello Stato e la tutela della famiglia”. La deputata è stata sconfessata ma credo che abbia espresso il senso comune dei quadri politici – e soprattutto degli elettori – pentastellati.

  

Quello dei grillini è, per molti aspetti, un dèjà vu. E’ nota la pagina di Etica e politica in cui Benedetto Croce, in un lontano scritto del 1930, metteva in guardia dal moralismo politico: “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta, che si fa dell’‘onestà’ nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gl’imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta d’areopago composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese”.

   

La novità, nel caso del M5s, sta nel fatto che, in esso, la dimensione sacrale della politica ha perso il polo-Dio (la Nazione, il Popolo autentico, la Classe, “Giustizia e Libertà”, eccetera…) ma ha conservato il polo Diavolo. Non è chiaro per cosa ci si batte ma è chiaro contro chi ci si batte: la casta, i partiti politici tradizionali, i banchieri che hanno rovinato l’Italia, i giornalisti prezzolati etc. La denuncia della disonestà da malumore periodico diventa una risorsa passionale vincente, alimentata da una magistratura che non si accontenta di perseguire i reati ma ne va alla ricerca e critica severamente la legge che regolamenta le intercettazioni (giacché, come ha detto il primo manpulitista prestato alla politica: “Chi non ha commesso niente di male non deve aver paura di essere intercettato”).

  

A questo punto, non sono le ricette di politica economica e le altre misure per raddrizzare il legno storto del paese proposte da Grillo e Di Maio che contano, ma la cucina politica in cui vengono elaborate, modificate, ritirate. Ciò che inquieta in questo nuovo populismo è il fatto che il moralismo, al quale si richiama, non esita ad alterare i princìpi su cui si fonda lo stato di diritto: in sintonia con quanto sente l’uomo della strada che, pur di stanare i disonesti, butterebbe tranquillamente a mare il divieto costituzionale di mandato imperativo. Chi è eletto da noi per bonificare questo dannato paese – è il ragionamento – deve rispondere a noi del suo operato, e quindi pagare il fio di una disobbedienza che avvantaggerà solo i ladri e i politici di malaffare. Ma c’è di peggio. Come ha fatto rilevare Luca Ricolfi, se, in nome dell’onestà, si vogliono colpire “i soliti pochi, ricchi e cattivi: finanzieri, banchieri, speculatori, corrotti, grandi evasori” si finisce in una “forte rivalutazione del ruolo dello Stato, come ombrello protettivo rispetto alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle ingerenze delle autorità sovranazionali”. Insomma più stato, più tasse, meno benessere per le classi medie, più potere ai magistrati in guerra contro la corruzione, più controllo sociale. Si finirà col dire dell’Onestà quello che Madame Roland aveva detto della Libertà: “Quanti delitti in tuo nome!”.