La nascita del Tribunale Supremo Popolare. Idea post 80 euro

Al direttore - 30.000 a T. Poi a fare il resto ci pensa H. Con il corifeo M (insieme ad altri) e i fascisti B e L.

 
Giuseppe De Filippi


Al direttore - Propongo che l’amministrazione della giustizia d’ora in avanti emani direttamente dal popolo e sia esercitata da un Tribunale Supremo Popolare. Propongo inoltre che d’ora in avanti i tribunali siano gerarchicamente subordinati all’Assemblea Nazionale del Potere Popolare (idest Parlamento) e al Consiglio di Stato (idest governo). Lo prevede la Costituzione a Cuba (articoli 120 e 121).

 
Michele Magno

Articolo uno: l’Italia è una Repubblica giudiziaria fondata sul lavoro degli avvisi di garanzia.


Al direttore - Ci risiamo. La tragica fine di Dj Fabo ha fatto scattare nuovamente la “trappola emotiva”: il coro quasi univoco di giornali, tv, radio, web sta cercando di forzare la mano a noi deputati. L’obiettivo è arrivare direttamente a una legge pro eutanasia, profittando del fatto che il 13 marzo arriva in Aula la legge sul “testamento biologico”. E’ uno schema già visto, fin dai tempi della diossina a Seveso, usata a suo tempo per spingere per una legge a favore dell’aborto. In un’èra ipercomunicativa come la nostra, la trappola emotiva esprime una forza e una violenza inaudite, alle quali è difficile opporsi portando ragioni contro emozioni: il ragionamento ha bisogno di tempo e “spazio”, l’emozione ha invece impatto ed effetto immediati. La “società dei diritti” si afferma a colpi di emozioni e di reazioni. Tra tanti diritti, invoco il diritto alla resistenza contro questo tipo di società. Con tutti coloro che, dentro e fuori dal Parlamento, ci vorranno stare.

 
Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia


Al direttore - Idea: se il governo Gentiloni trasformasse il bonus 80 euro in un aumento della detrazione fiscale per lavoro dipendente fino a 26 mila euro, sul piano sostanziale non cambierebbe quasi nulla per i 10 milioni di italiani che ne beneficiano, ma in compenso avremmo meno casi di conguagli a fine anno e quindi meno polemiche; circa 10 miliardi di entrate in meno iscritte a bilancio dello stato e quindi una percezione finalmente chiara di una pressione fiscale scesa di oltre un punto di pil dal 43,6 per cento del 2013 al 42,4 per cento del 2016; circa 10 miliardi di spesa corrente in meno e quindi una percezione finalmente chiara, in Italia e in Europa, dello straordinario sforzo compiuto in questi anni con una spesa corrente, al netto di interessi e prestazioni sociali, scesa in valori assoluti dai circa 370 miliardi del 2010 ai circa 355 miliardi del 2016.
E’ una operazione a costo zero che si limita a riallineare la forma alla sostanza di un intervento ottimo sull’Irpef che, già dal 2015, non è un bonus, ma una misura strutturale. Non fare questo è puro masochismo politico e rende pure meno forte il paese nel rivendicare in sede europea i propri successi.
Enrico Zanetti, segretario di Scelta Civica

 

Ottima idea.


Al direttore - “I riformisti hanno un problema in più, rispetto agli altri. Devono fare le riforme”. Questa battuta arriva dritta dalla fine degli anni Novanta, il periodo della Terza via, del New Labour, di Clinton, di Blair, di Schröder, e la pronunciò uno dei pochi ministri che in questo paese di riforma ne ha davvero fatta qualcuna. Ho voluto riportarla perché credo che in effetti esprima qualcosa di non così scontato: essere riformisti non è una definizione teorica o scientifica. Non è un’appartenenza ideale o ideologica o un posizionamento politico. E’ piuttosto una categoria professionale, quella di chi vuole cambiare le cose perché il mondo cambia: la fotografia di un lavoro duro. Ed è duro perché forti sono le resistenze di quelli che si oppongono al cambiamento, basta guardare in televisione lo sciopero dei tassisti, replica di un copione che periodicamente si ripropone uguale a se stesso da 10 anni. Ma è duro anche perché spesso si interpreta il riformismo come l’applicazione alla realtà di modelli teorici, elaborati magari decenni prima, quando è evidente che già dieci anni fa il mondo era del tutto diverso da quello di oggi. Basti dire che dieci anni fa il petrolio costava 150 dollari a barile, il pil italiano si manteneva attorno al 2 per cento, nessuno sapeva cosa fossero lo spread o i derivati e sembrava ancora sensato dibattere se il liberismo fosse di destra o di sinistra. Oggi mi pare evidente che il punto non sia se fare le riforme, ma come farle e, possibilmente, farle bene. Se si osserva con attenzione, si scoprirà, io credo, che le riforme ben riuscite sono accomunate da alcune caratteristiche. Hanno un obiettivo chiaro e ampio; sono orientate verso e non contro qualcosa; sono scritte da un nucleo ristretto di esperti, ma tenendo fermo il confronto con centinaia di stakeholders; toccano intere filiere di attività, riconducendo tutte a una logica unitaria; sono esposte in termini chiari e, tendenzialmente, sono comprensibili alla prima lettura; sono guidate da una forte leadership politica che però, con rarissime eccezioni, non elabora soluzioni, ma sceglie o modifica in una rosa ristretta. E, soprattutto, le riforme ben riuscite reggono alla prova del tempo, raccogliendo più consenso anni dopo che nel momento della loro approvazione. Esiste un buon motivo per cui dovrebbe essere finita una stagione di buone pratiche come queste? Sinceramente penso di no. Penso, certamente, che è finita una stagione in cui si travestiva da “riforma” qualunque attività di manutenzione ordinaria, stagione che ci ha consegnato a volte anche degli obiettivi condivisibili, ma declinati spesso in azioni episodiche e non risolutive.


Lasciatemi fare un esempio partendo da ciò di cui mi occupo, l’energia. La società Acquirente Unico è figlia della liberalizzazione del mercato elettrico del 1999 e da allora ha acquisito molte altre competenze. Dal 2007, tuttavia, qualcosa si è inceppato nel processo. Dal luglio 2007 tutti i consumatori sono liberi di scegliersi il fornitore sul mercato libero, ma, 10 anni dopo, su 32 milioni lo hanno fatto in otto milioni. Di questo passo, chiudere il servizio di maggior tutela richiederà almeno un’altra ventina d’anni. Il governo ha deciso due anni fa, nell’ambito di una legge, cosiddetta “Concorrenza” (peraltro ancora in discussione), di stabilire un termine per questo servizio “transitorio”. Si tratta di una decisione condivisibile, se è vero che un transitorio che si trascina indefinitamente non è mai uno stato desiderabile. Però è altrettanto vero che, trattandosi di un cambio di assetto che impatta su decine di milioni di famiglie italiane (per non parlare di milioni di piccole imprese), sarebbe auspicabile che intorno a questa modifica si addensassero delle riflessioni ampie e una discussione ampia. La mia sensazione, invece, è che il messaggio che stiamo mandando al paese è: l’assetto in cui vi trovate tutti non va bene, deve cambiare. Vesto i panni del consumatore medio e mi chiedo “e perché?”.


Sento risposte di ogni genere. Perché i prezzi scenderanno (come?); perché ci saranno più servizi (quali? Chi li vuole? E perché non ci sono già?); perché ce lo chiede l’Europa (quando mai? I nostri non sono mica prezzi amministrati); perché così saremo tutti liberi di scegliere (ma non eravamo liberi dal 2007?); perché la tutela di prezzo disincentiva la concorrenza (ma se ci sono oltre 350 venditori contro i 40 dell’Inghilterra); perché il prezzo della tutela non consente alle imprese di coprire i costi (ma allora i prezzi saliranno, non scenderanno! E se non coprono i costi come fanno a essercene 350?).


Ora, nella complessità delle società moderne, è impossibile pretendere che tutti capiscano il dettaglio di alcune scelte, ma è indispensabile che almeno la maggioranza riesca a coglierne qualche elemento. E soprattutto che in un tempo ragionevole gli aspetti positivi che si perseguono divengano almeno in parte percepibili. Nel caso di specie dell’energia, non basta dire che è necessario modificare l’assetto attuale, ma bisogna lavorare per prospettarne uno diverso e soprattutto credibilmente migliore. Ad esempio grazie a meccanismi di partecipazione attiva dei consumatori al mercato, potenziando la loro effettiva capacità di scelta e togliendo loro di dosso la sensazione (e non solo la sensazione) di essere nient’altro che pedine in un gioco deciso da altri. Ad esempio individuando diversi e più efficaci strumenti di welfare energetico a vantaggio dei consumatori vulnerabili (definizione tutta da riempire di significato), quali un nuovo modello di bonus e di servizio universale. Elaborando, insomma, soluzioni che non vengano percepite come punitive da chi non ha gli strumenti per esercitare una scelta consapevole.
Se questo però non si farà, non ci sarà troppo da stupirsi se, al momento del voto, che è la cartina di tornasole di ogni scelta politica, gli elettori premieranno in massa una soluzione magari non ottimale, ma che almeno comprendono. Di riforme, insomma, c’è bisogno. Ma ancor più di riformisti.


Andrea Peruzy, presidente e amministratore delegato di Acquirente Unico

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