Venti stagioni doc

Mariarosa Mancuso

Che cosa c’entrano Trump, la Clinton, Caitlyn Jenner e Paola Taverna? Guardate “South Park”.

 

Come sta “South Park” arrivato alla stagione numero 20? Come stanno i mocciosi Cartman, Kenny, Stan e Kyle, con il bip che copre le parolacce a protezione degli spettatori della loro età? Scherzano sulla campagna elettorale e sul dibattito tra Donald Trump e Hillary Clinton. Come tutti: anche la nuova stagione del “Saturday Night Live” è partita mettendo in testa ad Alec Baldwin il ciuffo del miliardario (pare ormai anche primatista nel salto delle tasse). La rivale Hillary ha il volto – e l’abito rosso – di Kate McKinnon. Risultato: il più alto indice d’ascolto da otto anni a questa parte (tra gli altri picchi elettorali, Tina Fey vestita – sempre di rosso – da Sarah Palin, e il dibattito Bush-Al Gore). Donald Trump che imita Hillary Clinton curva e zoppicante – “non riesce a camminare fino alla macchina, come farà a combattere l’Isis?” – è invece garantito genuino, non c’è stato bisogno di un imitatore.

 

“South Park” reinventa il match tra Hillary Clinton e Mr Garrison, insegnante della scuola frequentata dai mocciosi (nell’originale è doppiato da Trey Parker, che assieme a Matt Stone ha inventato i personaggi e avviato la serie). Ha cambiato sesso una volta, diventando Mrs Garrison – molto prima di Mort Pfefferman che all’inizio di “Transparents” diventa Maura, in cifre undici stagioni fa. Poi è tornato maschio (ma sempre prima che Jill Solloway avesse in mente la serie sul genitore transgender). Per questo ha scelto come vicepresidente Caitlyn Jenner: ora in costume di raso sulla copertina di Vanity Fair, a Montreal 1976 campione olimpico di decathlon.

 



 

“Fottere a morte gli immigrati” è la promessa elettorale di Mr Garrison, amichevolmente detto “giant douche” (stronzo gigante, potremmo osare, mentre Hillary è chiamata “turd sandwich”, dove “turd” sta per merda). Promettere è facile, eseguire difficile: gli avversari politici calcolano che le persone da fottere siano sette milioni e seicentomila. “Non ce la farò mai”, lamenta il candidato e intanto cerca un modo di perdere le elezioni (neanche Trey Parker e Matt Stone, che ne hanno scritte e dette di tremende, sono però riusciti a mettere nei loro copioni una battuta come “è un complotto per farci vincere”, la frase resta solidamente nel curriculum da comico di Paola Taverna).

 

Fare stronzate non serve (e del resto non è servito neppure al Movimento Cinque stelle parlare di scie chimiche). Spiega Mr Garrison, prigioniero di un paradosso tipo Comma 22: “Dovrei far qualcosa di terribile, ma ogni volta che ne combino una grossa mi amano di più” (ebbene sì, le serie d’animazione danno un bell’aiuto a capire quel che succede attorno a noi). La decisione è presa: resterà seduto durante l’inno nazionale. Non il solito vecchio inno degli Stati Uniti. Il nuovo commissionato a J. J. Abrams di “Lost”: ha salvato “Star Trek”, ha salvato “Star Wars”, potrà anche salvare quel che resta della nazione (“reboot”, dicono, “nuovo inizio”: esattamente come nelle saghe televisive che hanno bisogno di un rilancio dopo tanti sequel).

 

Neanche questo funziona. J. J. Abrams non ha cambiato l’inno ma le modalità dell’ascolto: in piedi con la mano sul cuore, seduti, sdraiati, che tutto va bene. La puntata elettorale si intreccia con i troll della rete – altro tema di grande attualità. “A nessuno importa di me”, si lamenta il ragazzino, e minaccia scelte irrevocabili. Come la ragazzina che sta sul ponte in preda a pensieri cupi. Ma uno vuole solo togliersi da Twitter, e l’altra dal ponte butta il solo il cellulare.

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