Servi e padroni

Mariarosa Mancuso

Su La5 l’ultima di “Downton Abbey”, il suo inventore vuole andarsene per tempo.

    Quando la serie cominciò era il 1912, il Titanic era appena affondato portandosi via un paio di eredi designati, e il conte di Grantham aveva solo figlie femmine: l’unico modo per conservare la proprietà di Downton Abbey era dare una fanciulla in sposa al lontano cugino Matthew (uno che lavorava come avvocato, e si vestiva senza l’aiuto di un valletto: da qui lo scandalo, prontamente sottolineato dalla contessa madre). La servitù, informata del fatto che l’elettricità sarebbe presto arrivata anche nelle cucine, si chiedeva “ma per farne cosa?”.

     

    Ora che la serie finisce – con la sesta stagione in onda su La5, a partire dallo scorso 31 gennaio – siamo nel 1925. Le gonne si sono accorciate, le braccia spuntano dagli abiti charleston, geometrici e ornati di paillettes. Resiste la caccia alla volpe, ma le signore rifiutano di cavalcare con la sella da amazzone, troppo pericolosa. La servitù deve essere ridotta: “chi può permettersi più un assistente maggiordomo, di questi tempi?”. Sei valletti e cinque cameriere sono troppi, la contessa madre discute in loro presenza di chi disfarsi. Poi scopriamo che non fa sul serio, la perfida Lady Violet, ma il clima è quello di un’azienda in cui si annunciano tagli al personale.

     

    Gli anni passano, la figlia maggiore Mary è sempre alle prese con gli stessi guai. Nella prima stagione si portava a letto un diplomatico turco in visita a Downton Abbey, tale Kemal Pamuk. Il giovanotto era aitante, non abbastanza per restar stecchito nel letto della colpa. Da qui la necessità di allontanarlo senza farsi notare dal resto della famiglia (la servitù non conta, è come il mobilio) e il commento della contessa madre Maggie Smith: “Un inglese non avrebbe mai il cattivo gusto di morire in casa d’altri”. In questa sesta stagione è ricattata dalla cameriera di un albergo: vuole 1.000 sterline per non rivelare ai giornali di averla vista condividere la stanza con un uomo che non era suo marito.

     

    “Upstairs /dowstairs” è sempre il filo conduttore, come in tutte le storie di servi (che sedevano a tavola le loro gerarchie, e diversi campanelli per essere allertati) e di padroni (che in caso di fine settimana in campagna sbarcavano dagli ospiti con la personale servitù, da posizionarsi a tavola evitando attriti e rancori). Julian Fellowes, l’inventore della serie, vuole andarsene come da una festa riuscita: quando ancora tutti son spiaciuti di vederlo partire, non quando l’ospite comincia a sbadigliare.

     

    Non resterà disoccupato. Sta lavorando a “The Gilded Age”, ambientata nella New York di fine Ottocento tra bella gente che si chiamava Vanderbilt, Rockefeller, Astor. Tra loro c’è Cora, ancora bambina: prima del matrimonio che la porterà nella vecchia Inghilterra e le vieterà di lasciare il patrimonio alle figlie.

     

    Dall’8 aprile, partirà invece il suo romanzo vittoriano nell’epoca delle App, con il titolo “Belgravia”. Un capitolo a settimana – il primo gratis per far venire la voglia – da leggere o da ascoltare. Sul sito, mappe, foto, video e altre ghiottonerie di contorno.