Fate l'hip hop, dài!

Mariarosa Mancuso

Meglio il ruvido succeso del re Lear “Empire” che quelle robacce da neri corretti tipo “Selma”

La televisione rende più bravi. Alza le barriere d’entrata. Premia il merito. Costringe anche i registi di cinema a porsi subito il problema: “Ho una grande idea per un pilot, ma poi qualcuno deve farsi avanti per finanziare la stagione, oppure torniamo tutti a casa” (e di questi tempi, le reti televisive americane, via cavo e non, di proposte ne ricevono a centinaia). Succede perfino in Italia, dove la serialità di “Romanzo criminale”, di “Gomorra” e di “1992” (l’ultima più per il coraggio che per i risultati) è molto, ma molto meglio del cinema.

 

La televisione rende più bravi. E lo fa alla svelta. Chi avrebbe mai sospettato di trovare il regista e lo sceneggiatore di un film edificante e malriuscito come “The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca” (anno 2013) dietro l’ultimo grande successo della tv Usa? Eppure sono loro, Lee Daniels e Danny Strong. Insieme firmano “Empire”, la serie che vanta il più alto tasso di crescita dal 1991, anno in cui la Nielsen cominciò a conteggiare gli ascolti. In onda dal 7 gennaio (in Italia ha preso il via il 3 marzo su Fox, con un ritardo che non fa sentire troppo alla periferia dell’impero), ha visto moltiplicarsi gli spettatori già durante il primo episodio. Potenza del passaparola, sono arrivati a 14 milioni, e ancora aumenteranno. A dieci giorni dal debutto, la Fox aveva già messo in cantiere la seconda stagione.

 

La correttezza politica di “The Butler” – e visto che siamo in tema anche di “Selma”, il film di Ava DuVernay sulla marcia del 1965 per i diritti civili dei neri celebrato da Barack Obama in occasione del 50esimo anniversario – sparisce senza lasciare traccia. “Empire” racconta l’hip hop, e una casa discografica nata grazie a 400 mila dollari guadagnati con lo spaccio di droga. L’ex musicista Lucious Lyon (l’attore è Terrence Howard), ormai ripulito e diventato industriale, ha intenzione di quotare l’Empire Entertainment in Borsa, ma certi dettagli vanno tenuti nascosti agli azionisti. A mettergli i bastoni tra le ruote, spunta l’ex moglie – e madre dei suoi tre figli – Cookie: una dura che si è fatta diciassette anni di carcere al posto suo, e ora vorrebbe metà dell’azienda. Anche cavare gli occhi alla nuova fidanzata di Lucious, a capo dell’impero. Scoppia una guerra tra femmine che manda in soffitta i rancori tra casalinghe disperate.

 

Sappiamo, nel primo episodio, che a Lucious restano tre anni di vita. Gli hanno diagnosticato la Sla, Sclerosi laterale amiotrofica detta anche morbo di Gehrig, dal nome del giocatore di baseball che si ammalò negli anni Trenta. Padre di tre figli, deve decidere chi sarà il suo erede. Andre, il maggiore, sa di finanza ma capisce poco di musica, e ai difetti si aggiunge una moglie bianca. Hakeem è il più piccolo, prediletto e viziato: ha talento, ha successo come rapper, nessuno scommetterebbe sulle sue capacità manageriali. Jamal è gay, quindi poco integrato con il machismo della comunità nera. Non bastasse, preferisce coltivare la sua arte invece di rincorrere il successo popolare.

 

Perfetta situazione da “Re Lear”, che infatti regista e sceneggiatore prendono a modello, misurando ancora una volta il gran salto fatto dal bozzettismo sentimentale del maggiordomo al servizio di sette presidenti. A Barack Obama, votato dai bianchi, Hakeem dà del “venduto” in un video che diventa virale (Cookie non ha mai sentito neppure la parola). Papà Lucious telefona al presidente per scusarsi (“ti preferivo quando eri un teppista”, è il commento acido dell’ex consorte). E intanto pensa che internet, togliendo soldi ai musicisti, priva i ragazzi neri della possibilità che ha avuto lui di uscire dal ghetto. A chi gli fa notare che l’hip hop celebra la violenza, risponde: “Meglio le rime che una calibro 12”.    

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