Dario Nobel

Umberto Silva
La fatica di vivere dà un senso alla vita, ecco il vero significato dell’inquietante agitarsi di Fo.

Difficile stendere sul lettino un premio Nobel asceso al cielo, se mostri delle pur nobili riserve molti suoi fan ti accuseranno d’invidia e maldicenza, sicché dopo un po’ ti chiedi: ma non potevo star zitto, che mi frega di parlare di Lui? Eppure ne parlo quindi qualcosa mi frega, e non è l’opinione di un istante quale giustamente Giuliano Ferrara condanna, ma la misteriosa ferita di un mezzo secolo, sempre la stessa. Cinquant’anni fa, quando ne avevo venti, ero in un teatro milanese a guardare “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe”. Volevo scacciare tristi pensieri e ridere, o sorridere e meditare, insomma desideravo partecipare a qualcosa, sentirmi vivo. Ero appena diventato comunista, ma non di quelli incredibilmente seri ed eleganti che m’incutevano rispetto, non mi rispettavo per niente, mi sentivo un buffone. Bè quella sera a teatro non risi, non ci riuscivo nonostante la mia ottima disposizione di comunista verso un altro comunista, c’era qualcosa in quella messinscena che proprio non funzionava, e sì che ero prontissimo a ridere, forse troppo, forse desideravo un padre che mi desse un po’ di carica.

 

Ci fu un momento in cui Dario Fo s’impiantò in mezzo alla scena con gagliarda mossa da equilibrista e gli spettatori, che neppure loro ridevano, a quel punto risero, ma giusto per uscire dall’incubo, poiché non c’era proprio niente da ridere. Fu un riso forzato che vent’anni dopo si ripeté con un altro misterioso riso mancato, questa volta da Polanski nel suo film “Pirati”. Così come per Fo anche per Polanski rimasi impietrito, con la differenza che Polanski aveva dato vita a capolavori della risata del tipo “Per favore non mordermi sul collo”, mentre tutto quel poco che negli anni vidi di Fo mi raggelò al punto che mi chiedevo cosa d’altro ci fosse sotto, a cosa davvero Fo stesse puntando. Non ero annoiato, tutt’altro, ero ferito da un enigma che non riuscivo a decifrare. Pensavo a Lubitsch che varcò le soglie dell’impossibile facendoci ridere con Hitler, e tutti noi spettatori non volevamo ridere, semmai imprecare e piangere. Nobel? Niente di tutto questo, per punizione e premio a guerra finita gli dèi fecero morire Ernst tra le braccia di un’intraprendente fanciulla.

 

Torniamo al Dario Fo di quella serata inquietante, per me almeno. Si dava un gran daffare sul palco, era incessantemente in marcia come del resto lo fu tutta la sua vita, che poi andasse di qua e di là dove lo portava una gran voglia di dire e apparire, benissimo; pensai che così facesse per scampare alla morte, la regina, che quando il giullare non riesce più a divertirla lo manda al capestro. Quegli occhi così mobili, quel riso sempre aperto, troppo aperto tanto che mi sembrava chiuso, serrato da qualcosa d’inesprimibile perché troppo manifesto… Insomma, Dario Fo mi è sempre parso fuori parte, fuori dalla propria parte che peraltro non si sa quale sia, e questo penso sia stato il suo cruccio ma soprattutto la sua forza. Lo vedevo sempre in movimento, e non saprei dire quali spettri fuggisse, forse quelli di Salò, per una sentita necessità di farsi perdonare una perdonabilissima giovinezza… a furia di sciocchezze assai più imperdonabili.

 

Nelle sue messinscene si agitava senza tregua come in cerca di uno sfinimento che mai arrivava, un parossismo che mi suscitava riflessioni: se indemoniati si svolazza qua e là come uccelli in gabbia, significa che si è in qualche modo consapevoli di un qualcosa che invano ci si affanna a dire, un qualcosa che non viene alla luce ed è costretto a ristagnare nel proprio sberleffo e nell’altrui bêtise. Vedevo Dario Fo e Franca Rame aggrapparsi alla meglio gioventù e pensavo a Sartre, un altro discusso Nobel, che saltellante mi concesse un’intervista romana. Dovevo essere io il giovane eccitato invece lo era lui; sproloquiava ininterrottamente con occhi di rana, al punto che mi colse un tale malessere, la famosa Nausea, che non riuscivo a capire né a scrivere quel che diceva: il sublime pagliaccio fugge dalla morte portandola dentro di sé, e, al cospetto del doganiere, la spaccia per vita. C’è qualcosa di grande in tutto ciò, qualcosa di tragico che è piaciuto agli svedesi innamorati di Strindberg. La fatica di vivere dà un senso alla vita, e mi commuove; ma tempo al tempo, immagino il volto stralunato di Fo distendersi in una serena quiete.

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