Dario Fo (foto laPresse)

Tutti hanno il loro Dario Fo da ricordare e raccontare. Io ne ho tanti

Adriano Sofri
La rivoluzione, il processo, la politica. Storia d'un legame

C’è chi ha fatto il ’45, chi il ’60, qualcuno ha fatto il ’68 e altri il ’77. Qualcuno era stato tagliato fuori e si rifece con i cosiddetti anni 80. Si diceva favolosamente “Il Duemila” per dire “Da Qui All’Eternità”, poi arrivò davvero il 2000, e qualcuno ha fatto il 2003 o il 2013, e molti sono andati a letto presto la sera. Dario Fo ha fatto tutto, fino a ieri, 13 ottobre del 2016, e non c’è nessuno che non abbia il suo Dario Fo da ricordare e da raccontare. Io ne ho tanti. Siccome ci separavano sedici anni, che verso la fine si rimpiccioliscono ma all’inizio sono una vita, da ragazzo guardavo dal basso in alto un leggendario Dario Fo che aveva una leggendaria Franca Rame, e lui stesso non si capacitava di una simile fortuna. Più tardi, quando ero un giovane uomo (a quell’epoca non si usava ancora chiamarsi ragazzi fino ai quarant’anni e oltre, secondo la scempiaggine d’oggi, a diciannove anni si era un giovane uomo) li incontrai in carne e ossa. La politica rivoluzionaria aveva, o si illudeva di avere – per un po’ fu lo stesso – una sua vena artistica, e comunque conferiva un’investitura magnanima, cosicchè ci si trovava improvvisamente accanto a quelle persone leggendarie come fra compagni di banco e di destino.

 

Grande fraternità, grande solidarietà, grande generosità – da parte loro specialmente, che avevano già accumulato tanto di talento e di prestigio – e anche, naturalmente, grandi rivalità e diffidenze. Il programma era di dissodare il pianeta intero, e a ogni buon conto ciascuno recintava il proprio orto. Un po’, non tanto. Quando occorreva si stava insieme. Occorreva continuamente. La generosità di Dario era travolgente perfino nelle circostanze più ordinarie: lo vedevate a colazione per combinare uno spettacolo e d’un tratto si metteva a slogarsi e improvvisare un monologo con tutta la trattoria a bocca aperta. Io non ero male, facevo buoni comizi, ma capirete la differenza. L’impegno che ci unì di più, e insieme ci rese più concorrenti, era quello per le galere: noi avevamo cominciato ad andarci, e fra poco, gloriosamente, anche Dario. La grande anima di quell’impegno dalla loro parte fu Franca, che diventò perciò un nemico pubblico, e quando una donna troppo bella e troppo ardita diventa un nemico pubblico si ricorre a maniere estreme, come si vide: è più forte di loro. Io e i miei amici ci tornammo, in galera, quando eravamo passati da tempo a miglior vita, o peggiore, e comunque diversa.

 

Si trattava della voragine in cui si era tentato di far precipitare l’Italia nel momento più drammatico di scontro fra uno stato inesorabilmente tirato verso la sua vocazione fascista e un movimento di giovani e lavoratori, e intellettuali e artisti, che aveva voglia di libertà e rivoluzione, benché le tirasse a sua volta verso direzioni esauste. Piazza Fontana, Pinelli, la sua morte accidentale, Calabresi, Valpreda, Catanzaro – altrettanti nomi di un elenco telefonico di quando i telefoni erano fissi, neri, pesanti, magari in duplex, e controllati a orecchio dall’appuntato. Anche il mio nome, del resto: nove ragazzi su dieci (di quelli che oggi sono ancora ragazzi a 45 anni) non l’avranno sentito, e il decimo magari crede di ricordarsi che devo aver messo le bombe a una banca. Avemmo un altro nostro Dario Fo, un’altra nostra Franca Rame, a difenderci. Il nostro processo fu scandaloso, e lo resta, benché i benpensanti di allora e di oggi fingano di non saperlo. Dario e Franca per farsene un’idea li studiarono e vennero nelle aule dei tribunali, a vedere coi loro occhi e ascoltare con le loro orecchie.

 

Io, dopo essere stato condannato contro la verità e le prove e aver scontato la non mia pena, sono sorprendentemente arrivato fino al punto di rimpiangere Franca e Dario, di dover ricordare l’abbraccio enorme di lui e l’abbraccio caldo di lei. Sono passati tanti altri anni. Franca andò in Senato con Di Pietro, Dario si innamorò dei giovani di Casaleggio e Grillo ed è morto restando fedele a quella speranza. Scelte che non avrebbero potuto essermi più estranee, ma che non intaccano di un millimetro il bene che voglio loro. Quando ricevettero il Nobel (infatti lo ricevettero in due, come Dario volle spiegare ai bravi signori di Stoccolma) promisero di usarne il premio per aiutarci, e ci affrettammo a spiegare che per fortuna non ce n’era bisogno. Fu un gran bel giorno: milioni di persone che avevano visto Dario su un palcoscenico furono semplicemente felici e orgogliose. Parecchi altri furono tristi, magari molto tristi, poche cose ci rendono tristi come l’invidia. Adesso che Dario Fo è morto e Bob Dylan gli è succeduto, io canticchio che sempre allegri bisogna stare, in una mia stanza molto lontana, aspettando altre cose.

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