Liberi di cambiare idea

Giuseppe Bedeschi

    I n un suo vecchio libro, “Democrazia e definizioni” (1957), che costituisce uno dei punti più alti della riflessione politologica del Novecento, Giovanni Sartori, dopo aver fissato che la democrazia dei moderni è fondamentalmente una: è la democrazia liberale – si chiedeva come tale democrazia potesse essere caratterizzata. E rispondeva: la democrazia liberale è quella democrazia che consente il dissenso, perché nell'affidare il governo alla maggioranza tutela il diritto di farle opposizione. Se possiamo ribattere a Rousseau che il cittadino non è libero solo nell'attimo nel quale vota, ma sempre, è perché egli può, in qualsiasi momento, passare dall'opinione dei più all'opinione dei meno. E' in questo “poter cambiare di opinione” che si radica l'esercizio continuo e durevole della mia libertà. E infatti la maggioranza ha il diritto di prevalere nei limiti: cioè rispettando i diritti e la libertà delle minoranze, le quali possono diventare maggioranze alle successive elezioni politiche. Inoltre, aggiungeva Sartori, democrazia liberale vuol dire che il potere è legittimo solo se è investito dal basso, solo se è una emanazione della volontà popolare, cioè se e in quanto liberamente consentito. Dunque, su un piano strumentale la democrazia liberale può essere definita così: un sistema pluripartitico (di competizione fra i partiti) nel quale la maggioranza liberamente eletta governa nel rispetto dei diritti delle minoranze.

    E' evidente che i partiti sono strumenti essenziali per la democrazia liberale, perché gli elettori si esprimerebbero a vuoto, e produrrebbero il vuoto – il caos di una miriade di frammenti – senza il quadro di riferimento e di opzioni dei partiti. I quali, coi loro programmi, organizzano il voto. Solo l'illusione o l'ipocrisia (aveva già detto Kelsen) può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici.

    Nel quadro che abbiamo tracciato finora sulla scorta delle indicazioni di Sartori, due elementi appaiono assolutamente fondamentali: il formarsi di una libera opinione pubblica, l'esistenza dei partiti politici e la loro capacità di captare gli orientamenti prevalenti nella pubblica opinione. Ciò significa però che, come la pubblica opinione non è qualcosa di immobile, in quanto cambia (più o meno rapidamente) i propri orientamenti, così i partiti politici devono cambiare i propri programmi, le proprie proposte ecc. Sicché i partiti politici non possono essere delle sfingi immobili, e sono soggetti anch'essi a una continua evoluzione. Chi volesse arrestare questa mobilità, questo continuo cambiamento della vita politica e dei partiti, negherebbe l'essenza stessa della democrazia liberale, che riflette le mutevoli esigenze della società civile.

    L'idea del mandato imperativo è in profondo contrasto con tutto ciò. I partiti politici devono avere, se vogliono vincere, capacità di convinzione presso gli elettori, capacità di “egemonia”; devono avere grandi antenne per percepire la pubblica opinione e i suoi mutamenti. I partiti non possono trasformarsi in qualcosa di rigido e di autoritario: essi devono basarsi sul consenso. Questa libertà vale anche per i loro gruppi parlamentari, perché può benissimo accadere (è accaduto tante volte) che alcuni senatori o deputati di un partito ritengano che il gruppo dirigente del loro partito non interpreti più correttamente gli orientamenti della pubblica opinione, e che quindi tali deputati o senatori non vogliano più militare nel partito che li ha eletti e vogliano riprendere la loro libertà di azione, convinti di riflettere meglio le esigenze della società civile.

    Perciò, quando Salvini e Di Maio – in ciò di nuovo alleati – invocano il mandato imperativo, negano i meccanismi più delicati della democrazia liberale. Entrambi sono indignati per il fatto che ci sono dei parlamentari che cambiano casacca: fatti eleggere dalla Lega o dai Cinque stelle, abbandonano il loro gruppo parlamentare di origine e si trasferiscono in un altro. “A me queste persone fanno schifo – tuona Salvini – Bisogna intervenire sul vincolo di mandato quando avremo i numeri”. E Di Maio a sua volta: “Dobbiamo metter fine al mercato delle vacche sia dei parlamentari che passano nei gruppi sia dei gruppi che li fanno entrare. Credo sia giunto il momento di introdurre in Italia il vincolo di mandato. Come e con quale formula costituzionale vedremo”. Salvini e Di Maio non si rendono conto che con queste loro dichiarazioni essi confessano candidamente di essere dei nemici giurati della democrazia liberale. Essi vorrebbero infatti immobilizzare quello che è mutevole; vorrebbero imbalsamare i loro partiti e i loro gruppi parlamentari, a prescindere dalla dialettica politica fondata sulla libertà; vorrebbero abolire il dissenso.

    Giuseppe Bedeschi