Il geniale antilibro dell'antiautore che scriveva solo note a piè di pagina

    I l tentativo di ritrarre un individuo proverbialmente singolare come Roberto (Bobi) Bazlen (1902-1965) sapendo in anticipo che la più elegante e pratica conclusione è dire che ritrarlo è impossibile, ecco, questa è un'impresa o arte a cui rinuncio volentieri. Che lui fosse una specie di taoista triestino e mitteleuropeo, o un maestro zen, o uno “sciamano in abiti borghesi” (come dice Roberto Calasso) e soprattutto un autore abitato da un demone che gli ha consigliato di schivare il rischio di produrre opere, Bazlen sembra comunque esigere di essere mitizzato, perché altrimenti si potrebbe dire ben poco di lui. La dismisura fra ciò che è stato e ciò che virtualmente era è troppo grande, cosa che infine autorizza a parlare di lui soltanto coloro che lo hanno conosciuto di persona e frequentato: fra questi, due grandi critici letterari come Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Ma oggi Calasso, che ha scritto di Bazlen un sintetico e perfetto antiritratto, è rimasto il solo testimone attendibile delle misteriose operazioni esistenziali votate all'autocancellazione, compiute da un uomo che dopo essere stato consigliere editoriale di Adriano Olivetti, Bompiani, Astrolabio, Einaudi, ha permesso con i suoi suggerimenti a Luciano Foà e Calasso di fondare la Adelphi: la sola casa editrice che sarebbe stata in grado di rispecchiare con la maggiore fedeltà la sapienza di lettore di cui Bazlen era capace.

    E' da poco uscita proprio da Adelphi una nuova edizione economica degli Scritti di Bazlen ed è uno di quei libri la cui forza di attrazione si raddoppia o si moltiplica nel mese di agosto più caldo che si ricordi. E' un libro leggero, disintossicante, frammentario, fatto di brevi o a volte brevissimi abbozzi narrativi, di appunti, di lettere editoriali a Solmi e Foà. E' il libro antilibro di un antiautore che allo scrivere preferiva il leggere e conversare. C'è in questo un mistero così insondabile? Forse no. Leggere e parlare piuttosto che scrivere dovrebbe essere la cosa più naturale e comune per chiunque non abbia molta fede nella storia, nella memoria dei posteri e nell'ambizione mondana di trasmettere un messaggio a un pubblico. E' possibile che in Bazlen ci fosse più amor proprio che ambizione e che sdegnasse di sottomettersi al giudizio e all'uso di un pubblico di lettori contemporanei dei quali non doveva avere un gran concetto. Chi poteva davvero capirlo erano in effetti non più di dieci o venti persone, e per farsi conoscere e apprezzare da loro non c'era bisogno di pubblicare libri, bastava incontrarsi, parlare e spedire loro qualche lettera. C'è comunque in proposito una precisa dichiarazione di Bazlen: “Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri – Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi. Io scrivo solo note a piè di pagina”. Bazlen sentiva evidentemente di appartenere a una cultura che si era espressa e poi inabissata fra gli ultimi decenni dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, al di là dei quali l'Europa era entrata in una sua dopo-Storia, sul cui significato non si poteva contare. Forse è anche in questo senso che Calasso ha voluto inventare per Bazlen la qualifica di “uomo post storico”: uno dei primi e dei pochi che siano stati istintivamente consapevoli di esserlo. La cosa chiamata Storia senza dubbio esiste: ma se è vero che per molti è tutto o quasi, per la maggioranza è molto ma non tutto, per altri ancora invece è quasi nulla. Anche se questo enorme e potente nulla può facilmente distruggerci. Forse la storia in cui Bazlen sentiva di essere non era la Storia teorizzata e immaginata dai vari storicismi moderni.

    Non sono mai riuscito ad apprezzare molto quello che rimane del “Capitano di lungo corso”, romanzo incompiuto a cui Bazlen lavorò subito dopo il 1945 e di cui in questo libro compaiono parecchie pagine. Nei vari quaderni di appunti, poi, gli alti e bassi sono continui e molte, forse troppe sono le mezze frasi poco decifrabili o poco interessanti. Quelli che incuriosiscono di più sono i giudizi letterari. A ventitré anni, nel 1925, Bazlen scrive a Montale che Senilità, il secondo dei tre romanzi di Svevo, da tempo introvabile, non solo è “un vero capolavoro”, è anche “l'unico romanzo moderno che l'Italia abbia avuto”. Ma poco dopo dirà che La coscienza di Zeno è “infinitamente superiore” (valutazione almeno in parte discutibile).

    Nella stessa lettera (16.11.1925) scrive: “Siete diventate matti di volermi far collaborare a una rivista? Io sono una persona per bene che passa quasi tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo, e che esce ogni tanto per far qualche visita o per andare al cinematografo. Per di più manco completamente di spirito messianico divulgativo, e non ho mai inteso nessun bisogno di partecipare agli altri le mie idee, tanto meno a lettori di riviste”. Della morte del suo coetaneo Piero Gobetti resta molto impressionato, anche se gli era sembrato “insopportabile” (per il suo infaticabile impegno politico antifascista? questo è implicito ma piuttosto chiaro). Quando nel giugno 1951 scrive a proposito dell'Uomo senza qualità di Musil, non si dichiara entusiasta: è troppo lungo, troppo frammentario, troppo lento e troppo austriaco. Grande “precisione di pensiero” e “scrittura impeccabile” ma purtroppo, dice Bazlen, di tutti i personaggi che compaiono non si viene a sapere quello che si vorrebbe: “chi vive, chi si sposa e chi crepa”. Quando si mette a leggere “Lo spazio letterario” di Maurice Blanchot dice di aver trovato “sei pagine stupende”, anche se poco prima aveva affermato che un tale “acrobata spirituale” fa molti “giri a vuoto” intorno al desiderio, alla morte, alla notte, all'angoscia, tutte “solidificazioni putrefatte nel simbolismo francese e nel classicismo post-simbolista”. Parla male anche del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Non è un gran che; comunque la pagina più brutta” vale secondo lui tutta la collana di narrativa diretta per l'Einaudi da Elio Vittorini.

    Alfonso Berardinelli