La paura fa Centinaio

Valerio Valentini

    Roma. Il bluff è talmente sgraziato, che i grillini, che pure sono i grillini, nemmeno ci cascano. Sono da poco passate le nove del mattino quando il ministro leghista Gian Marco Centinaio sembra provare a rianimare col defibrillatore un esecutivo già morto. “Ma questo è il governo, mica un giochino per fare like”, sbotta subito Sergio Battelli, fedelissimo di Luigi Di Maio. “Salvini è un pericolo per il paese, ormai: non si può giocare con gli italiani. Non è accettabile: per me è game over con la Lega”. Passano pochi minuti e anche Luca Carabetta, deputato che aveva sempre pronosticato una lunga vita al grilloleghismo, si rivela categorico: “La Lega si è dimostrata inaffidabile, sleale e poco seria. Per noi è impossibile immaginare qualsiasi scenario futuro con loro”. E insomma il tentativo appare fallito. Perché il tentativo era quello non già – non ancora, almeno – di ricreare davvero il governo gialloverde, ma quello di mettere zizzania tra i grillini, di instillare dei dubbi e delle divisioni nella pattuglia dei parlamentari a cinque stelle. Andava in fondo nella stessa direzione il colpo di teatro di Matteo Salvini al Senato martedì, quando il capo del Carroccio s'era detto pronto, su imbeccata di Roberto Calderoli, a votare insieme al M5s la riforma del taglio dei parlamentari e poi andare subito al voto. L'intervista di Centinaio, rivelano nell'entourage del vicepremier, doveva servire a dare ancora più credibilità alla finzione. Solo che poi il ministro dell'Agricoltura – “Forse sapendo che se salta il governo salta pure la sua candidatura a commissario europeo”, malignano nel Carroccio – s'è lasciato prendere la mano, e in una intervista a Radio Capital ha parlato quasi con la voce di chi si reca a Canossa: “Io sono quello che non chiude mai le porte fino in fondo”. E per un attimo, nello stato maggiore del M5s, c'è stato chi ha temuto qualche defezione. E non caso dallo staff di Luigi Di Maio hanno chiesto a Stefano Patuanelli, capogruppo al Senato dove i malumori sono sempre maggiori, se qualcuno avesse manifestato intenzioni di tornare davvero con la Lega. “Nessuno”, è stata la risposta lapidaria. Trappolone schivato, dunque. Ma non sarà l'unico: perché Salvini, accortosi che l'intesa tra M5s e Pd sulla via del nuovo governo procede ad alta velocità, ha deciso che di qui al 20 di agosto, quando Giuseppe Conte arriverà in Senato per le sue comunicazioni, dovrà cercare d'inceppare la trattativa demogrillina che lo relegherebbe all'opposizione. Non a caso, come chi volesse offrire consigli non richiesti al nemico, alcuni esponenti della segreteria di Nicola Zingaretti si sono visti avvicinare, martedì scorso, da sottosegretari leghisti. “Ma veramente volete fare il governo coi grillini? Guardate che sono dei pazzi”. E giù a elencare le stramberie più surreali di un anno e mezzo di convivenza.

    Del resto Salvini già lunedì scorso, durante l'assemblea dei parlamentari, ai suoi soldati aveva assegnato una strana missione: “Non dobbiamo inimicarci quegli esponenti del M5s con cui abbiamo lavorato meglio. A loro non garantiamo posti in lista, ma elezioni democratiche”. Al che alcuni deputati, un po' interdetti, avevano consultato il loro capogruppo Riccardo Molinari: “Vuol dire che dobbiamo provare a portarli da noi?”. E la risposta era stato un laconico “Boh”. Ieri, poi, Salvini s'è ulteriormente allarmato: “Staremo attenti nei prossimi giorni – ha dichiarato – perché non si crei a Roma un'alleanza innaturale tra Pd e M5s”. Ma nessuno, tra i suoi, ha capito come. Di certo c'è che l'unico strumento che forse accelererebbe i tempi di questa crisi, Salvini non vuole usarlo: le dimissioni dal governo della sua delegazione continua a minacciarle, a prospettarle ai suoi stessi ministri (è successo anche martedì, al Senato, prima di ripiegare sulla furbata del taglio dei parlamentari), ma poi non le mette in atto. E lascia così il tempo a Pd e M5s – i contatti, tra gli stati maggiori, ieri si sono parecchio intensificati – di trovare un'intesa perfino sui tempi e i modi per tenere a battesimo il nuovo governo. Conte, nei piani del M5s, è insostituibile. “Se cominciamo a parlare di premier tecnici, mi incateno al Mef per protesta”, scherzava, chissà fino a che punto, Laura Castelli lunedì scorso. E dunque quello che, con l'eventuale benedizione del Quirinale, dovrebbe accadere è che il premier faccia le sue comunicazioni il 20 agosto al Senato, e forse l'indomani alla Camera, ma senza che ci siano votazioni di sfiducia. Dopodiché andrebbe al Colle, per rassegnare il suo mandato nelle mani di Sergio Mattarella e, sempre secondo il percorso auspicato dal M5s, vedersi subito riassegnare un pre-incarico di formare un nuovo governo, ma col Pd. Neppure Matteo Renzi, che pure lo ha sbeffeggiato, ha di fatto posto un veto sul bis dell'“avvocato del popolo” a Palazzo Chigi. Né lo fanno i suoi fedelissimi. “Molto dipenderà – spiega il deputato Enrico Borghi – dalle comunicazioni che farà Conte. Non si tratta di una mera formalità. Speriamo non venga solo a rivendicare i risultati di un anno di governo gialloverde, perché in quel caso saremmo inflessibili. Se invece prenderà atto che in gioco ci sono gli stessi principi democratici, le regole del gioco, il posizionamento del paese a livello europeo e internazionale, allora sarà diverso”. Consiglio non richiesto, pure questo.

    Valerio Valentini