Il Foglio internazionale

Il fronte ucraino dell'occidente

Non solo frontiera militare, anche un limes politico e morale che dovrebbe ispirarci. L'articolo del Tablet

Non sono rimasto sorpreso dall’esito del piano di pace americano” scrive Park MacDougald sul Tablet. “Quando è trapelata la notizia, mi trovavo a Kyiv come parte di un piccolo viaggio per giornalisti organizzato da Razom for Ukraine. Il nostro gruppo, che mescolava ‘falchi’ e ‘colombe’ in misura più o meno uguale, aveva passato giorni a incontrare ucraini e cercare di capire la guerra. Avendola seguita solo da lontano, mi aspettavo un popolo esausto. Mi chiedevo se gli Stati Uniti non stessero in realtà facendo loro un favore, offrendo un pretesto per porre fine ai combattimenti. Sono rimasto invece sorpreso dalla violenza con cui quasi tutti gli ucraini con cui abbiamo parlato hanno respinto l’offerta americana. ‘Se il presidente Zelenskyy porterà questo accordo in Parlamento’, ci ha detto Ivanna Klympush-Tsintsadze, ‘mi dispiace per lui. Davvero’. I sondaggi confermavano quella posizione: tre quarti degli ucraini consideravano l’accordo completamente inaccettabile, e una maggioranza era disposta a sopportare la guerra per tutto il tempo necessario. La resa non era un’opzione. Era difficile non rimanerne impressionati. Negli Stati Uniti, dopo decenni di guerre fallimentari, è diventato comune denunciare le ‘guerre eterne’ in luoghi lontani. In certi ambienti della destra americana, l’Ucraina era stata ridotta a una caricatura: una provincia corrotta dell’impero globalista, tenuta in vita da neocon e guerrafondai. 


Questa visione era impossibile da sostenere a contatto con la realtà. Quello che ho visto era, in termini di moralità dei conflitti internazionali, una delle situazioni più in bianco e nero che potessi immaginare. Gli ucraini combattevano per difendere le loro case e la loro libertà contro l’invasione di un impero esterno che mostrava tutte le caratteristiche del male. Non lo facevano perché manipolati dall’America, ma perché ritenevano fosse meglio morire liberi che vivere da schiavi. Più tardi quella sera, camminando per le strade buie di Kyiv, uno dei miei colleghi disse qualcosa che riassumeva i miei sentimenti: ‘Mi vergognerò di me stesso come americano se butteremo questa gente al fiume’. Arrivare oggi a Kyiv è un viaggio estenuante, ma una volta lì si rimane colpiti da quanto la città sembri normale. Caffè e ristoranti brulicano di vita, i monasteri dalle cupole dorate punteggiano lo skyline. L’unica cosa che stona è il buio: i blackout a rotazione, fino a dieci ore al giorno. 


Nei quartieri residenziali interi isolati restano immersi nell’oscurità. La guerra si ricorda soprattutto di notte. Gli attacchi arrivano spesso mentre si dorme. Per noi era un fastidio; per la gente comune molto peggio. La notte del 18 novembre, bombardieri russi colpirono Ternopil, una città considerata sicura. Missili da crociera distrussero palazzi residenziali, uccidendo 36 persone, tra cui sette bambini. Stavamo arrivando in Ucraina in uno dei momenti più difficili della guerra. Uno scandalo di corruzione aveva appena travolto l’entourage di Zelenskyy, e la situazione al fronte era grave. I russi avanzavano nel Donetsk e a sud, mentre l’esercito ucraino faticava a reclutare. C’erano timori che i vantaggi tecnologici dell’Ucraina stessero svanendo. Eppure, accanto al pessimismo, emergeva qualcosa di diverso. L’Ucraina non era come la Russia, dove per secoli la popolazione era stata asservita. Era una società di frontiera, abituata a cavarsela da sola. 


La società civile e le reti di volontariato erano più forti che in qualsiasi paese occidentale. In Ucraina, non erano un’aggiunta allo stato: erano uno dei suoi pilastri. Questo si vedeva ovunque. Organizzazioni civili raccoglievano fondi per il fronte; persino in una stazione di servizio i proventi del caffè servivano a comprare droni. La produzione bellica su piccola scala era integrata nella vita quotidiana. Abbiamo visitato una startup di droni nascosta in quella che sembrava un’officina meccanica. Il suo fondatore, Artem, era un veterano zoppicante, ferito più volte al fronte. Parlava un inglese fluente, mescolando termini militari e slang da programmatore. Lavorava a un sistema radar capace di rendere obsoleti i droni russi a fibra ottica. Ci mostrò un piccolo drone di difesa aerea, economico ed efficace contro gli Shahed. 


Quando gli chiedemmo quale esito della guerra avrebbe considerato soddisfacente, rispose con ironia nera che una bomba nucleare su Mosca aveva i suoi pregi, ma che si sarebbe accontentato di smembrare lo stato russo. Erano uomini come Artem a dare fiducia agli ucraini. Un analista raccontò che, mentre molti americani prevedevano il collasso dell’Ucraina in sei mesi senza aiuti Usa, l’intelligence ucraina parlava di anni di resistenza. ‘Dal punto di vista americano, potete valutare solo le cose visibili’, gli avevano detto. ‘Ma le cose visibili sono solo una parte’. 


Questo spirito decentralizzato si rifletteva anche nelle forze armate, soprattutto nelle unità d’élite nate come milizie volontarie. Erano guidate da ufficiali giovani, spesso brillanti, che gestivano la guerra come un’organizzazione moderna, proteggendo la vita dei loro uomini e adattandosi rapidamente alle nuove tecnologie. La guerra non assomigliava più alla Prima guerra mondiale. Non c’erano più assalti di massa o linee di trincea continue. Al loro posto c’era la ‘zona di uccisione’, chilometri di territorio in cui tutto ciò che era visibile poteva essere distrutto. Muoversi era pericoloso; rifornire e evacuare i feriti lo era ancora di più. Ho parlato con ‘Odesa’, un sergente che combatteva dal 2014. Durante una missione, il suo veicolo aveva colpito una mina sganciata da un drone. L’autista era morto. Al secondo tentativo, un drone suicida aveva colpito di nuovo, spezzandogli una gamba. ‘Quando vieni colpito’, mi disse, ‘la cosa più importante è continuare a muoverti’. Nonostante tutto, il morale nella sua unità restava alto. ‘Sappiamo cosa stiamo facendo e perché’. Molti ucraini pensavano ancora di poter vincere, non riconquistando territori ma resistendo abbastanza a lungo da costringere i russi a fermarsi. Nessuno si fidava di Putin. Un accordo debole sarebbe stato solo un invito a una nuova invasione. ‘Non esiste vivere sotto occupazione russa’, mi ha detto Dmytro Bodyu, un vescovo evangelico arrestato dai russi nel 2022. Ha descritto deportazioni, omicidi di leader locali, repressione della lingua ucraina. ‘Se prendono l’Ucraina, non ci sarà più un’Ucraina’. 


Bodyu ha raccontato del suo arresto. ‘Mi dissero: odiamo gli americani, odiamo gli evangelici, e odiamo i nazisti. Tu sei tutti e tre’. Bodyu è stato rilasciato solo grazie all’intervento del dipartimento di stato. Altri, senza protezioni, erano stati torturati o uccisi. ‘Ci state chiedendo di fare una scelta’, ha detto. ‘Non c’è scelta’.  Una sera abbiamo visitato ciò che restava della casa di Mark Sergeev, un pastore evangelico. Un missile balistico Iskander aveva colpito l’edificio mentre lui, la moglie e i figli erano dentro. Erano sopravvissuti per miracolo. Sergeev ci ha mostrato un video in cui, la mattina dopo, cantava lodi a Dio tra le macerie. ‘Ho celebrato due funerali la settimana scorsa’, ha detto. ‘Ma domenica abbiamo avuto dieci battesimi. Forse alla fine va bene’. Sergeev ha parlato della guerra come di una battaglia spirituale. Ha detto che ciò che stava accadendo non era solo per la terra, ma per la libertà. Ascoltandolo, ho pensato a quanto fosse facile, da lontano, scivolare in un’inversione morale che trasformava vittime evidenti in oggetti di scherno. C’era qualcosa di compulsivo in quella confusione, come se le idee potessero possedere le persone. ‘Il mondo ci aveva dato pochi giorni’, ha detto Sergeev. ‘Ma siamo ancora in piedi’. 


A Dnipro abbiamo incontrato altri leader religiosi, molti dei quali avevano perso le loro chiese nei territori occupati. Un pastore battista di terza generazione ci ha dettoi che l’indipendenza ucraina aveva significato libertà dalla persecuzione. Ci ha ringraziato per essere venuti. ‘Per favore dite alla nazione americana: quando fate il bene, non stancatevi’. Mentre lasciavamo la città, le sirene antiaeree hanno iniziato a suonare. Missili balistici erano in arrivo. Nel van, alcuni pregavano, altri scherzavano nervosamente. Nessuno si è rilassato finché non fummo lontani.  Mi rattrista vedere parti della mia comunità politica schernire queste persone. Chi è disposto a combattere e morire per difendere la propria libertà è esattamente il tipo di alleato di cui l’America ha bisogno. Gli ucraini stanno difendendo le loro case, le loro famiglie e il loro diritto a vivere e pregare liberamente con una chiarezza morale che dovrebbe ispirarci. Dovremmo darci forza a vicenda, in qualunque modo possiamo”. (Traduzione di Giulio Meotti)

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