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UN FOGLIO INTERNAZIONALE
La guerra e le menzogne. L'analisi di Georges Bensoussan
Il grande storico dell’antisemitismo spiega che su Israele si continuano a usare i vecchi stereotipi inventati dalla propaganda sovietica
Il grande storico dell’antisemitismo Georges Bensoussan analizza sul Figaro le cause profonde del conflitto arabo-israeliano e deplora la mancanza di cultura e la pigrizia intellettuale di molti osservatori. Mentre lo scontro tra Israele e Iran domina i titoli dei giornali, la tragedia di Gaza continua e il presidente francese Emmanuel Macron ha lasciato più volte intendere che la Francia potrebbe riconoscere lo stato palestinese.
“Possiamo tranquillamente dire, da persone ragionevoli, che la soluzione a due stati sembra la meno peggio” dice Bensoussan. “O addirittura la più logica. Ma lo diciamo da quasi novant’anni perché, contrariamente a quanto si crede, la parte araba ha rifiutato la divisione della Palestina in due stati in sei occasioni dal 1937. Rifiuto del Piano Peel nel luglio 1937, rifiuto del Libro bianco britannico nel maggio 1939, che prevedeva l’indipendenza della Palestina entro dieci anni. Rifiuto della risoluzione 181 delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che prevedeva la divisione della Palestina in due stati. E tre successivi “no” alla proposta di uno stato palestinese accanto a Israele avanzata dal Primo ministro israeliano Ehud Barak nel 2000 e nel 2001 e da Ehud Olmert nel 2007.
Il progetto del 2001 cedeva ai palestinesi il 95 per cento della Cisgiordania e accettava il principio della sovranità congiunta su Gerusalemme. E’ come se accettare lo stato palestinese equivalesse ad accettare la nazione israeliana, e qui sta il problema per gran parte dell’opinione pubblica araba, che vuole un solo stato. Ma al posto di Israele. Perché questo stato palestinese, che oggi viene salutato come il rimedio a tutti i mali della regione, non è nato tra il 1949 e il 1967, in Cisgiordania e a Gaza, dove all’epoca non c’erano né ebrei né israeliani? Si tratta di due territori che all’epoca nessuno diceva fossero palestinesi e che lo sono diventati solo con l’occupazione israeliana del giugno 1967. Questa domanda è stata posta molte volte e rimane senza risposta. Per capire questi blocchi, dobbiamo guardare al posto dell’ebreo nell’economia psicologica del mondo musulmano dove, anche dopo l’abolizione della dhimma (lo status degli appartenenti alle religioni monoteistiche rivelate che hanno preceduto l’islam abitanti nel territorio musulmani, ndr), questa idea di inferiorità e superiorità persiste nella mente delle persone. Quando un sistema di credenze crolla, non scompare ma assume altre forme e, a questo proposito, l’inferiorità quasi ontologica dell’ebreo nella psiche arabo-musulmana sembra difficile da superare. Dal 1948, tuttavia, è stata duramente smentita da uno stato di Israele sovrano, il cui esercito infligge ai musulmani sconfitte su sconfitte. Un conflitto affonda le sue radici nelle mentalità sedimentate che costituiscono il suo substrato culturale più profondo. E’ da qui che parte l’analisi”.
Il dibattito sul conflitto israelo-palestinese sembra essere ossessionato dai ricordi della Seconda guerra mondiale, tanto che il termine “genocidio” è entrato nel dibattito pubblico per descrivere la situazione a Gaza. “In un’epoca priva di un progetto collettivo strutturante, evocare la lotta dei grandi antenati sembra dare un senso a una realtà mediocre. Ma la ‘reductio ad Hitlerum’ è anche il segno di una mancanza di cultura storica e di una pigrizia intellettuale quando, invece di pensare da zero una realtà nuova (il presente, per definizione, è ciò che non è mai stato vissuto), le imponiamo vecchi schemi, rischiando di non capire nulla né del presente che stiamo vivendo né del passato che invochiamo.
E’ in questo contesto che dobbiamo comprendere l’uso della parola genocidio in relazione al conflitto a Gaza. Ma anche perché l’uso di questa parola in relazione a Israele è vecchio quanto lo stesso stato di Israele. In Francia, ad esempio, è dal 1948 che la vecchia estrema destra collaborazionista accusa lo stato di Israele, per voce di Maurice Bardèche, di ‘genocidio contro gli arabi’. Tuttavia, la fonte principale di questa accusa risiedeva altrove, nella propaganda comunista sovietica mista al vecchio antisemitismo russo (cfr. il processo Slansky tenutosi a Praga nel novembre 1952, dove 9 dei 12 imputati, tutti ebrei, furono accusati di ‘sionismo cosmopolita’, e nella stessa Mosca, nel 1952-1953, il ‘complotto dei camici bianchi’) che, a partire dal 1950, ha pubblicato milioni di opuscoli ‘antisionisti’ in una moltitudine di lingue, in cui il ‘sionismo di Tel Aviv’ (sic) veniva accusato di seguire le orme del nazismo. La retorica araba ha fatto propria questa delirante accusa, mentre accoglieva a braccia aperte, in Siria e in Egitto in particolare, ex nazisti diventati consulenti in materia di repressione. Come Aloïs Brunner, l’ultimo comandante del campo di Drancy, che assisteva il siriano Hafez al-Assad nella sua opera di morte.
I più incolti, che vedono l’antisionismo come un’ideologia ‘progressista’, non sanno che l’antisionismo è apparso fin dal primo Congresso sionista (Basilea, 1897) negli ambienti clericali nazionalisti e fondamentalisti di estrema destra. Dopo la Grande guerra e fino al 1945, il nazismo e il Terzo Reich hanno sostenuto l’antisionismo, come dimostrato dall’ideologo Rosenberg dal 1920 e dallo stesso Hitler nel ‘Mein Kampf’ del 1925. Hitler, che promise in più occasioni che con lui uno stato ebraico non avrebbe mai visto la luce. Al contrario, alla fine del 1946, fu fondata a Parigi la Lega francese per una Palestina libera (nel senso di uno stato ebraico), i cui membri comprendevano Jean-Paul Sartre, Jules Romains, Vercors, Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Paul Claudel, Vladimir Jankélévitch, Louis Jouvet, Emmanuel Mounier, André Breton, Paul Éluard, François Mauriac, Maurice Merleau-Ponty e Raymond Queneau”.
Al di là della questione israelo-palestinese, i riferimenti agli anni Trenta e alla Seconda guerra mondiale sono onnipresenti nel dibattito pubblico. “Innanzitutto, riflette una perdita di punti di riferimento e rimanda a un più ampio processo di depoliticizzazione che sta trasformando la storia in un tribunale e lo storico in un pubblico ministero. In realtà, l’intero campo politico sta oggi migrando verso il terreno del blando moralismo, quella postura del bene in cui si blocca una coscienza fiera di sé stessa. Nelle ultime settimane, il conflitto arabo-israeliano ha portato alla pubblicazione di numerosi articoli in cui dei ‘sublimi ebre' hanno affermato che l’azione dell’esercito israeliano a Gaza ha ‘ferito il loro ebraismo’. Ma senza dirci come sconfiggere un’organizzazione islamica totalitaria e genocida che usa la popolazione civile per proteggere le sue armi”.
(Traduzione di Mauro Zanon)

Il Foglio internazionale