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Un foglio internazionale

Stiamo diventando completamente sdolcinati e troppo benevolenti

Ecco come l’obbligo di piacere ha avvelenato le relazioni sociali. Prima si voleva far ridere e dissacrare, oggi è tutto un “baci baci”. Scrive Le Monde (27/8)  

Accompagnato da un’armata di emoticon, l’obbligo di mostrarsi gentili con tutti ha colonizzato l’educazione, la famiglia, il management, i social network, la cultura… E ha finito per rendere asettici i nostri rapporti, spiega Maroussia Dubreuil. Nel corso degli ultimi dieci mesi, un’impresa marsigliese ha ottenuto il “premio benevolenza” in occasione dei Trofei degli imprenditori positivi; un centro ricreativo nella Loira atlantica ha organizzato un mini “Koh-Lanta” (reality simile all’“Isola dei Famosi”, ndr) sull’“isola della benevolenza”; Pôle Empoli (il centro per l’impiego francese, ndr) ha reclamato con “benevolenza” gli aiuti versati in eccesso ai lavoratori precari; l’applicazione Tinder ha pregato i suoi utenti di farsi le coccole in totale “benevolenza”; una comica ha “trattato e maltrattato l’attualità con malizia e benevolenza” ai microfoni di Europe 1; la ministra della Cultura Roselyne Bachelot si è scontrata con la giornalista Léa Salamé su France 2 – “Lei pensa di essere la proprietaria della benevolenza e dell’empatia?” – e Emmanuel Macron ha mantenuto la sua promessa elettorale – “Ho una regola di vita per le donne e per gli uomini così come per le strutture, è la benevolenza” –  parlando su YouTube con gli inoffensivi McFly e Carlito.

 

Quest’estate, infine, la cantante Angèle si è scusata di avere soltanto questa “parola alla moda” per descrivere la sua esperienza durante le riprese con l’intenso regista Leos Carax, in occasione della proiezione del film “Annette” al Festival di Cannes. “Ma è stato veramente… gentile, estremamente gentile”, ha detto lasciandosi andare (…). Tanto lodevole quanto instagrammabile, nonché mai colpevole, in che modo la benevolenza ha finito per avvelenare la vita? “Stiamo diventando completamente sdolcinati”, sospira Matthias Debureaux, 51 anni, autore del saggio “Le Noble Art de la brouille” (Éditions Allary, 2018). “Negli anni Ottanta, ci si dicevano cose terribili tra amici, ci si insultava l’un l’altro, non c’era cattiveria e ci faceva ridere. Il battutista era popolare e piaceva alle ragazze. Oggi, mi ritrovo invece a dover dire ‘baci, baci’ a tutti. Altrimenti, passo per un mostro”. 

 

Vittima del suo successo, la benevolenza ha perso qualità per smussare gli angoli, rendere asettici i nostri rapporti e leccare i piedi in ogni circostanza. Lo scrittore americano Bret Easton Ellis ne è convinto: l’eccessiva sdolcinatezza del mondo è causata dai millenials che chiama “Generazione Inetti”. Cresciuti da genitori superprotettivi, queste mammolette nutrite con il latte di mandorla tenderebbero a cadere nel sentimentalismo e, senza modello economico affidabile, cercherebbero di essere amati invece di prosperare. “Ecco perché oggi la Generazione Inetti chiede solo una cosa: please, please, please, datemi un feedback positivo, please”, scrive Ellis, con una certa tenerezza per il suo boy-friend di vent’anni più giovane che, dopotutto, ha conosciuto soltanto “il post 11 settembre, due guerre e una recessione brutale” (Vanity Fair, settembre 2014). Impegnati in questa battaglia del pleonasmo – la benevolenza è un bene – e la politica dell’emoticon, Mark Zuckerberg (37 anni), dopo aver condotto una serie di test, non prevede più di aggiungere il tasto “non mi piace” su Facebook, e gli instagrammer si donano a vicenda del #love in cambio di un #followme (…). 

 

“Eccoci dunque colpiti da un Bene incurabile. Questo millennio finirà nel miele”, anticipava nel 1991 il filosofo Philippe Muray (1945-2006) nel suo saggio “L’Empire du Bien. Il est urgent de le saboter”. “Il genere umano è in vacanza…”. Effettivamente, nel 2020, la superiore di Julie T., architetto urbanista nella regione parigina, si è trasformata in una gentile organizzatrice. “Happiness manager”, secondo le sue parole. “Quando eravamo in piena epidemia di Covid, organizzava ogni lunedì una colazione per unire la squadra. Poi posava sulla nostra scrivania ciò che chiamava delle ‘piccole attenzioni’… In altre parole, una serie di correzioni che non finivano più. Alla fine abbiamo rimandato la colazione al venerdì pomeriggio per poter andarcene direttamente”. Su dodici collaboratori, otto hanno dato le dimissioni. Vuol dire allora che la felicità non viene consegnata assieme ai pasticcini? Secondo uno studio condotto a luglio da Appinio sulla positività tossica, l’84 per cento dei francesi ha ammesso di reprimere (quantomeno qualche volta) le proprie emozioni per sembrare felice. “Perché far finta di non avere della violenza dentro di noi?”, chiede la psicanalista Fabienne Kraemer. “L’ingiunzione alla benevolenza ci costringe a contenerci con i nostri colleghi e i nostri superiori… Al contrario, l’entourage familiare serve da valvola di sfogo. La benevolenza per tutti è un’esigenza professionale che richiede di acquisire una forma di distacco verso l’altro”. Detto in altre parole, la benevolenza è controproducente.

 

(Traduzione di Mauro Zanon)

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