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Foglio AI - EDITORIALI

Senza smartphone si studia meglio

Serviva un report per capirlo? Così abbiamo smesso di fidarci del buon senso

C’era bisogno di uno studio accademico con 17 mila studenti per scoprire che senza cellulari i ragazzi a scuola rendono di più? Sì, c’era bisogno. Perché la politica dell’istruzione ha imparato a diffidare dell’evidenza e a trasformare l’ovvio in materia di dibattito infinito. Così oggi ci stupiamo se uno smartphone, con la sua offerta illimitata di distrazioni – dal labrador che pattina sul ghiaccio al video di un gamer coreano – mette in difficoltà persino Shakespeare e la tavola periodica. E mentre i ragazzi scorrono tra TikTok, meme e chat, gli insegnanti si trovano a dover competere con un algoritmo progettato per catturare l’attenzione più a lungo possibile. Non è un dettaglio: è la nuova sfida educativa del Ventunesimo  secolo.

Lo studio citato dal Times ha mostrato che bandire i cellulari in classe equivale, in termini di rendimento, a sostituire un insegnante mediocre con uno eccellente. E che il miglioramento è più marcato negli studenti in difficoltà. Un risultato che avrebbe dovuto essere scolpito nel marmo delle ovvietà e invece diventa notizia da prima pagina. Se la gestione dell’attenzione fosse considerata prioritaria come la valutazione delle competenze matematiche o linguistiche, forse il dibattito sull’uso dei telefoni non sarebbe più oggetto di controversie infinite.

Il paradosso è che la società che celebra l’innovazione digitale non riesce più a gestire i suoi effetti collaterali più banali. In Gran Bretagna, il 90 per cento degli undicenni ha un telefono, ma solo un decimo delle scuole secondarie ne vieta l’uso. Come se a un certo punto avessimo deciso che la dipendenza da schermo è inevitabile, una forma di destino tecnologico a cui non opporsi. In Italia il dibattito è lo stesso: meglio insegnare l’uso consapevole che proibire? Meglio regolamentare che vietare? Eppure, dietro queste cautele, c’è una resa preventiva. La scuola è uno dei pochi luoghi rimasti dove l’adulto può dire: adesso basta. Non per nostalgia del gesso e del registro cartaceo, ma per riconoscere che l’attenzione è la vera risorsa scarsa. Limitare le distrazioni non è un atto di repressione, ma di cura: insegnare ai ragazzi a concentrare l’attenzione è prepararli a un mondo in cui la capacità di filtrare stimoli e informazioni vale più di ogni app o dispositivo. Sarebbe ironico se la vera innovazione educativa del decennio fosse la più antica delle regole: metti via il telefono e ascolta. Forse non farà aumentare il pil, ma a quanto pare fa aumentare i voti. E chissà che  non sia proprio questo ritorno all’essenziale a rappresentare la più grande sfida digitale della nostra generazione: convincere un’intera società che l’attenzione, più della connessione, è la vera rivoluzione.