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Il processo alla sicurezza nazionale: cosa dicono le carte su Piantedosi, Nordio, Mantovano
Perché la magistratura vuole portare in tribunale Piantedosi, Mantovano e Nordio. E perché non è solo un processo a tre ministri, ma alla politica stessa, accusata di aver osato decidere cosa sia l’interesse nazionale.
Le carte dell’inchiesta che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio per i ministri Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano e Carlo Nordio sono state visionate in anteprima dal Foglio, in attesa che vengano formalmente trasmesse alla Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati, cui spetterà decidere se consentire o meno il processo ai tre membri del governo. Una decisione che non sarà solo tecnica, ma politica e costituzionale. Perché il nodo da sciogliere è uno: la magistratura può giudicare la politica anche quando questa decide come proteggere la sicurezza nazionale?
Dietro le accuse penali – favoreggiamento, omissione d’atti d’ufficio, peculato – si profila infatti una contestazione ben più ampia: la pretesa di riscrivere i confini tra la giurisdizione e la decisione politica. Un processo non a un abuso, ma alla prerogativa stessa di un governo di valutare, in piena responsabilità, cosa sia l’interesse dello Stato.
Il caso: Al-Masri, la Libia, il governo
Tutto parte dall’arresto, a Torino, del generale libico Osama Al-Masri, il 19 gennaio 2025, su segnalazione Interpol attivata dalla Corte penale internazionale (CPI). Su di lui pendeva un mandato d’arresto per crimini contro l’umanità, tortura e omicidi commessi nel carcere libico di Mitiga. Inizialmente detenuto, Al-Masri viene scarcerato dalla Corte d’appello di Roma per un vizio di procedura: secondo la legge italiana (l. 237/2012), l’arresto per conto della CPI non può essere eseguito d’iniziativa dalla polizia giudiziaria, ma richiede l’autorizzazione formale del ministro della Giustizia.
A quel punto, il governo – preoccupato dai rischi per la sicurezza nazionale, come documentato dai Servizi segreti in appunti classificati – decide di espellere il generale libico. La firma è del ministro Piantedosi, ma la scelta viene assunta “nell’ambito di una valutazione collegiale” fra Chigi, Viminale e Ministero della Giustizia. Al-Masri viene rimpatriato quella sera stessa, su un volo CAI predisposto dall’AISE, insieme ad altri tre cittadini libici.
Le accuse: omissione, favoreggiamento, peculato
Per la Procura di Roma, non è stata una decisione politica: è stato un reato. In particolare:
• Carlo Nordio è accusato di omissione d’atti d’ufficio (art. 328 c.p.), per non aver dato seguito alla richiesta di arresto della CPI;
• Piantedosi e Mantovano sono accusati, insieme a Nordio, di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), per aver aiutato Al-Masri a sottrarsi alle indagini della CPI;
• inoltre, a Piantedosi e Mantovano viene contestato il peculato (art. 314 c.p.), per aver disposto l’utilizzo di un volo governativo per “favorire l’elusione del mandato d’arresto”.
Scrive il collegio dei magistrati nella relazione che abbiamo consultato:
“I tre indagati hanno agito in piena consapevolezza delle richieste della Corte penale internazionale. Hanno scelto, in forma coordinata, di ignorarle e di dare esecuzione a un’espulsione che ha avuto come effetto quello di vanificare la cooperazione internazionale richiesta”.
Secondo i magistrati, la catena politica ha deliberatamente scelto di non trasmettere gli atti alla Procura generale di Roma, nonostante fosse stata predisposta una bozza di decreto a firma Nordio. Ma il Gabinetto del ministro, si legge, “ha scelto di non inoltrare nulla”.
Il nodo giuridico: la legge speciale o l’articolo 716?
Al centro del contenzioso c’è un dettaglio tutt’altro che tecnico. Il diritto italiano distingue tra le richieste di arresto da parte degli Stati (disciplinate dal codice di procedura penale) e quelle della CPI (disciplinate da una legge speciale). Secondo i giudici, la specialità della legge preclude l’arresto d’iniziativa della polizia. Secondo la dottrina maggioritaria, invece, in casi urgenti – come quello di Al-Masri – la PG può intervenire anche in attesa della convalida.
Insomma, è un conflitto tra letteralismo e prassi, tra gerarchia delle fonti e interpretazione costituzionale del principio di giustizia. Ma invece di dirimerlo in Parlamento o in Corte costituzionale, lo si è portato in aula penale, con tre ministri sul banco degli imputati.
Il paradosso del segreto (che non c’era)
E qui arriva il paradosso. Nessuno dei tre ministri ha invocato il segreto di Stato, né l’ha opposto all’autorità giudiziaria. La scelta è stata di trasparenza riservata, non di opacità. Ma ora proprio questa scelta viene letta non come gesto di fiducia istituzionale, bensì come colpa.
Come dire: se volete decidere in autonomia, meglio metterci il segreto. Altrimenti ve ne assumete le responsabilità penali. È una logica pericolosa. Perché incentiva il silenzio e disincentiva la responsabilità. E ribalta l’onere: è la politica a dover giustificare le sue scelte davanti alla magistratura, non più il contrario.
Chi decide cos’è l’interesse nazionale?
Ma il cuore del problema non è tecnico. È politico. Perché il governo ha deciso che la permanenza di Al-Masri sul suolo italiano rappresentava un rischio per la sicurezza nazionale. L’ha fatto sulla base di informazioni fornite dall’AISE, che ha documentato – in modo circostanziato – la possibilità di ritorsioni contro cittadini italiani e interessi strategici, in particolare a Tripoli e nei siti energetici dell’Eni.
Il punto è: questa valutazione compete al governo o ai giudici? È un giudizio politico, come l’invio di armi in Ucraina o l’espulsione di un diplomatico. Eppure, oggi, si tenta di trasformarlo in un reato.
Un precedente che cambia tutto
La giunta per le autorizzazioni dovrà ora stabilire se concedere il via libera al processo. Ma il vero nodo non è Nordio, né Piantedosi, né Mantovano. È l’equilibrio costituzionale tra poteri. Si può processare la discrezionalità politica? Si può giudicare penalmente una decisione assunta in piena legittimità da tre ministri nell’esercizio delle loro funzioni?
Se la risposta è sì, cambia tutto. Cambia il ruolo della politica, che non decide più ma subisce. Cambia la natura della magistratura, che si arroga il potere di stabilire i confini dell’interesse nazionale. Cambia il principio di responsabilità: i ministri non rispondono più al Parlamento, ma ai pm.
Ed è proprio questo, in fondo, il processo che si sta preparando: non a tre uomini, ma alla libertà della politica di essere politica. Alla sua capacità di scegliere, di rischiare, di rispondere al Paese, non alla Procura