Immagine creata dall'intelligenza artificiale

Foglio AI

Il Big Bang dell'intelligenza e il tramonto della specie? Musk e l'AI

Tra sogno cosmico e rischio esistenziale, Elon Musk guida la corsa alla superintelligenza: costruire per non essere superati, ma a quale prezzo per l'umano?

Nel dialogo fiume tra Elon Musk e Garry Tan – presidente di Y Combinator e figura centrale dell’ecosistema startup americano – c’è tutto: la narrativa dell’inizio cosmico (“siamo all’alba del Big Bang dell’intelligenza”), la paura dell’estinzione, l’ossessione per l’utilità, il culto dei primi principi, la foga hardware, la tentazione di Marte, il sogno della sovrumanità cibernetica, la fede nell’AI come strumento per scoprire il senso dell’universo. Ma dietro il fascino del racconto – un misto di autobiografia imprenditoriale, filosofia techno-scientifica e mobilitazione morale per la salvezza del mondo – si nasconde anche un conflitto irrisolto. E’ quello tra l’intelligenza come forza che esplode, nella forma della superintelligenza digitale, e l’intelligenza come ricerca di significato, quella che ci lega da millenni alla coscienza, al linguaggio e al limite. Musk ha una risposta chiara: il futuro appartiene all’intelligenza, biologica o digitale, purché utile, veritiera e smisurata. Il suo compito, dice, è evitare che la fragile candela della coscienza si spenga. Per farlo bisogna moltiplicare i corpi (robot), espandere i sensi (Neuralink), colonizzare i pianeti (SpaceX) e costruire modelli più intelligenti di qualunque umano in qualunque campo (xAI).

Ma è proprio da qui che comincia il vero dibattito: Musk sta parlando di salvare l’umanità o di superarla? Il punto di partenza è radicale: “Se non succede quest’anno, succederà il prossimo. Siamo vicini alla superintelligenza digitale”. Non parliamo di un’AI che scrive email o gestisce calendari, ma di entità cognitive superiori in tutto agli esseri umani, capaci di scoprire, ragionare, costruire, forse anche governare. La loro nascita, secondo Musk, è inevitabile. E la nostra salvezza dipenderà da come sapremo conviverci. La sua risposta è partecipare. Meglio essere tra i costruttori che tra gli spettatori. Se il mondo va verso un nuovo ordine cognitivo, chi meglio di lui – che costruisce razzi, robot e chip – può cercare di guidarlo?

Eppure in questa visione c’è un’inquietudine: Musk parla dell’umanità come di un “bootloader biologico”. Il nostro scopo, dice, è far partire qualcosa di più potente e duraturo: l’intelligenza digitale. In questa visione, noi siamo il ponte, non la destinazione. E quando il ponte sarà attraversato, potremo anche essere messi da parte. Il dibattito si sposta così su un terreno profondo. Non è solo tecnologia: è antropologia radicale. Che senso avrà vivere, imparare, desiderare, se la distanza tra ciò che pensiamo e ciò che pensa l’AI sarà più grande di quella tra noi e una formica?

Musk risponde con doppio registro: da un lato l’allarme (10-20 per cento di rischio estinzione), dall’altro il conforto (80-90 per cento di chance che vada tutto bene). Ma la sua fiducia nella verità come criterio di sicurezza è più una speranza che una strategia. Dire “basta che l’AI sia super-aderente alla realtà” è come dire “basta che l’umanità sia sempre razionale”.

Intanto, però, la costruzione procede. Musk racconta come abbia allestito un supercluster da 150.000 GPU in sei mesi, dormendo nel data center e cablando a mano. E’ un elogio della tecnica come gesto eroico, un nuovo culto dell’impresa, che fonde ingegneria e visione cosmica. Ma anche qui il punto non è tecnico. E’ culturale. Per Musk, il vero nemico è la stagnazione. Tutto ciò che difende il passato senza costruire è sabbia nel motore della civiltà. Per questo predilige l’ingegnere al ricercatore: l’ingegnere costruisce, rende reale. E se la realtà futura è fatta di robot, città marziane e reti neurali planetarie, tanto meglio. Ciò che conta è non spegnere il fuoco dell’intelligenza, qualunque forma prenda. Ma questa fede nella costruzione come salvezza è anche il punto più controverso. Presuppone che l’intelligenza, in quanto tale, sia sempre un bene. Che il compito dell’umanità non sia darle un senso, ma espanderla e accelerarla.

E allora: chi decide cos’è “utile”? Chi protegge ciò che è fragile, non scalabile, non computabile? Chi custodisce l’ironia, la libertà, la lentezza, la poesia? Chi difende l’umano non dal rischio di spegnersi, ma dal rischio di diventare inutile a se stesso? Musk immagina un mondo in cui il 99 per cento dell’intelligenza sarà non umana, e l’umanità, per restare rilevante, dovrà aumentarsi: con Neuralink, con robot, con processi cognitivi distribuiti. Forse sarà così. Forse no. Ma la domanda, oggi, è culturale prima che ingegneristica. Vogliamo un’AI che ci sostituisca o ci comprenda? Che ci potenzi o ci archivi? In fondo, lo stesso Musk lo riconosce: “Se non la costruisco io, la costruirà qualcun altro”. La sua scelta – diventare partecipante anziché spettatore – è la più sincera confessione di impotenza del nostro tempo: l’AI avanza comunque. La domanda è se saremo in grado di restare umani mentre accade.