Il Foglio

Il male come percentuale dell'umano e il coraggio della scrittura di Avallone

Gaia Manzini

Emilia balla a lume di candela, balla la disperazione di una giovane donna che non ha mai fatto l’amore, non ha la patente, non ha mai lavorato, e noi non sappiamo perché. Sappiamo solo che dietro di lei c’è un buco, un orrido che Silvia Avallone ci fa sentire a ogni riga

Per arrivarci devi imboccare un sentiero che si chiama Stra’ dal Forche. 

Una giovane donna si trasferisce nella vecchia casa di un paese quasi abbandonato, Sassaia, già dal nome aspro e ruvido, non pensi che ci siano braccia aperte ad accoglierla; già così sembra una pena, una punizione: ma in fondo è quella che cerca - la punizione. L’espiazione. Costruzioni di pietra, tetti di ardesia, altri due abitanti; i ninnoli di una vecchia zia defunta di cui occupa la casa, la tappezzeria macchiata di umidità, le lenzuola di canapa, nessuna televisione, un vecchio letto dove non si addormenterà mai. Eppure la sua vita inizia adesso, dopo una pausa di quindici anni. 

Emilia balla da sola nella casa diroccata, balla a lume di candela, balla la disperazione di una giovane donna che non ha mai fatto l’amore, non ha la patente, non ha mai lavorato, e noi non sappiamo perché. Sappiamo solo che dietro di lei c’è un buco, un orrido che Silvia Avallone ci fa sentire a ogni riga. A ogni riga, una vertigine. Per Emilia, la protagonista di Cuore nero (Rizzoli), è difficile anche uscire di casa. Eccolo lì il mondo: oltre la porta, basta un passo, poi un altro. E allora prende a correre tra i castagni, attraverso la piccola piazza, corre fino a una terrazza naturale spalancata sulla valle, sulle montagne, sulla vastità del cielo, e sviene. E noi con lei.

Cuore nero non l’ho letto tutto d’un fiato, anzi. E non perché Emilia non ci piaccia da subito - come ci appassiona e ci fa incazzare Bruno; come Riccardo (il padre) e Basilio (il pittore che darà un lavoro a Emilia) ci commuovono - ma perché Avallone ci prende e ci porta verso qualcosa che non vogliamo vedere. Lei ha il coraggio della sua scrittura e ci chiede di appaiare il nostro passo al suo. “Un attimo era allegra, tenera, sensuale, licenziosa; e l’attimo dopo era come se volesse radere al suolo l’intero pianeta, te compreso, tanto odio le montava in corpo.”

Ho letto questo libro in Austria. Guardavo i quadri di Egon Schiele, in cui ogni figura ha i contorni tremuli lì a dire quanto sia incerta la nostra dimensione umana: nulla è definito, ognuno di noi è straniero a sé stesso. “The individual was becoming dividual”, diceva una didascalia, ma non era neanche necessario leggere per capire;  quelli di Schiele non sono quadri che riesci a osservare a lungo restando sereno. “Nessuno di noi contiene una persona soltanto” dice Basilio a un certo punto. Cuore nero ti fa stare scomodo come scomodo sei quando leggi di Raskol’nikov, anzi scomodo come davanti a Stavrogin, l’eroe di Dostoevskij che ti distrugge col suo fascino, ma ancora di più col suo passato, le sue colpe, il burrone che si porta dentro. Non ci mostra una eroina negativa, non ci chiede di provare fascinazione per qualcuno di malvagio. Non rappresenta il male come qualcosa o qualcuno a sé stante, ma come una possibilità. A volte eruzione di fatti casuali, di circostanze che possono creare una sequenza malefica: il male come percentuale dell’umano. Siamo lì tra le montagne a guardare questa giovane donna imparare a ridere, a gioire dell’intimità con un uomo, a godere del proprio talento di artista. Lì a dirsi che la sua vita vale qualcosa perché ora è oggetto di cura non più solo di suo padre, forse il personaggio più bello di questa storia – “chi è forte è sempre generoso”.

Foster Wallace insisteva su un punto: la letteratura si occupa di che cosa vuol dire essere un essere umano. La stessa persona capace di colpe indicibili può essere degna di amore: solo i libri ci possono portare in un luogo così complesso. La letteratura è lo spazio dell’ambiguità, è la finestra da cui ogni cosa prende i contorni tremuli dei quadri di Schiele. L’ambiguità però non è la damnatio, ma il luogo dove ogni trasformazione è possibile.

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